ALDO MORO “i valori morali e religiosi ai quali la D.C. s'ispira
e che essa vuole tradurre in atto il più possibile nella realtà sociale e
politica sono destinati ad affermarsi nella vita democratica del Paese, nella
quale la D.C. è inserita e nella quale essa li porta”
Lo
sviluppo democratico della società italiana, 1962-01-27
L'unità
nella varietà delle posizioni
Noi
abbiamo accentuato in questi anni la spinta verso l'unità del Partito, la quale
è già nelle cose, nella natura cioè e nella funzione della D.C., nella sua
responsabilità verso un elettorato così vasto e complesso al quale s'ispira
naturalmente fiducia nella possibilità ed utilità del ritrovarsi unito nella
misura nella quale una tale esemplare unità si ritrovi nel Partito che lo
rappresenta. Alla unità della D.C., non dimentichiamolo mai, cari amici, non
dimentichiamolo soprattutto nei momenti difficili, sono legati il prestigio, il
primato e la funzione della D.C. nella vita nazionale. Non si tratta dunque di
fare un calcolo, il che non tornerebbe ad onore della D.C., ma piuttosto di
prendere e riprender coscienza ad ogni istante del significato storico del
nostro partito, della responsabilità che ricade su di noi, della possibilità
che ci è offerta, proprio per quello che noi siamo, di realizzare una vasta
mobilitazione popolare che fondi su sicure basi di giustizia e di solidarietà
la libertà del nostro Paese.
Abbiamo
accentuato dunque, dicevamo, la spinta verso l'unità del partito. Abbiamo
voluto la durevole e felice esperienza della Direzione unitaria, che crediamo
sia stata e sia per essere anche in avvenire, pur con gli inevitabili
inconvenienti, uno strumento importante per assicurare la comprensione, la
collaborazione, l'apporto costruttivo di tutte le idee alla determinazione
della linea politica e alla attuazione di essa nell'azione concreta della D.C.
Abbiamo accentuato questa spinta, sforzandoci di trasformare il dato
significativo della Direzione unitaria da fatto di vertice ad espressione
periferica del Partito, facendo del rispetto, dell'apprezzamento, dell'incontro
dei democratici cristiani un modo reale di vita e non una sovrastruttura formale.
Abbiamo accentuato questa spinta con il riconoscimento della piena cittadinanza
di tutti i democratici cristiani nel Partito senza discriminazione alcuna, con
il meccanismo di non formali consultazioni, con l'invito cordiale alla
collaborazione, con la valorizzazione di tutte le idee, di tutte le competenze,
di tutte le esperienze in seno alla D.C. L'invito pressante all'unità non
significa invito alla unanimità non è stata richiesta nella Direzione neanche
in momenti difficili e, quando essa vi è stata, ha voluto significare libero
convincimento della validità di talune tesi politiche al di là di ogni
pregiudiziale di parte ed accentuato senso di responsabilità verso il Partito e
verso il Paese. La unanimità non è stata e non è richiesta nel Partito come una
condizione della indispensabile unità della D.C. Tutt'altro. In verità il
Partito si serve non con un inammissibile conformismo, non con lo sbiadire le
posizioni particolari ed il contributo originale di ciascuno alla
caratterizzazione politica del Partito, ma proprio con l'apporto libero e
convinto delle proprie tesi, con il dibattito costruttivo, con l'accettazione
disciplinata della legge democratica della maggioranza. Così come sarebbe
tradimento dell'elettorato la rottura od incrinatura della unità della D.C.,
così sarebbe per un altro verso mancanza ad uno stringente dovere la fittizia
unanimità delle posizioni del Partito, che è cosa riprovevole tanto quanto
l'artificiosa accentuazione di punti di vista particolari. In realtà solo il
gioco delle maggioranze e delle minoranze, che si delineano in un dibattito
regolato, garantito, veramente libero, fa di un partito una forza democratica.
Le minoranze sono essenziali al Partito sia per la loro vivace iniziativa che
non dev'essere compressa sia per la loro disciplina che garantisce la
necessaria libertà di movimento della D.C. L'unità dei Partito non è dunque
compromessa dalla diversità delle posizioni, ma semmai dalla loro minore
compostezza. L'unità che scaturisce dalla dialettica maggioranza-minoranze è
del resto proprio quella posizione di equilibrio dinamico che garantisce
l'assolvimento della funzione propria del Partito nella collettività nazionale.
Le minoranze dunque contribuiscono a definire il vero volto della D.C. e ne
assicurano l'equilibrio interno così come di riflesso l'equilibrio politico
generale del Paese.
Finché
sia garantita pienamente la dialettica democratica in seno al Partito il peso
delle decisioni della maggioranza non è insopportabile per le minoranze. Esse
hanno una loro posizione, la cui efficacia non può essere misurata alla stregua
di un inammissibile piegarsi della maggioranza alla volontà delle minoranze.
Esse hanno invece il diritto, il dovere e la concreta possibilità di proporre,
illuminare, seguire, controllare, criticare l'attuazione della linea politica
della maggioranza, di sviluppare quei motivi polemici che possono trovare una
ragione di affermazione nello sviluppo della situazione politica.
La
rottura del rapporto maggioranza-minoranza, che è sempre suscettibile
d'inversione, è un'abdicazione ai propri compiti, la rinuncia ad una seria
prospettiva, una ragione di turbamento, di disordine e di ritardo nella vita
democratica del Paese. Quale che sia la giustificazione che si voglia addurre,
si tratta di un momento negativo e non costruttivo, di una perdita di contatto
con gli ideali del Partito e non di un modo di servirli meglio.
La
D.C. ha conosciuto molte prove, ha affrontato molte difficoltà soprattutto con
la forza della sua unità. Nulla induce a credere che, in presenza di prove e
difficoltà di tanto rilievo, quali l'attendono in questo momento, essa abbia a
temere il venir meno di questa sicura garanzia per l'assolvimento dei suoi
compiti nella democrazia italiana.
L'insostituibile
funzione dei partiti
In
quello che abbiamo detto è implicito il riconoscimento della insostituibile
funzione dei partiti, e naturalmente del nostro, nella vita politica del Paese.
Non si può polemizzare sul cosiddetto strapotere dei partiti e sulla invasione
che essi compirebbero nella sfera di potere propria degli organi
costituzionali. La polemica sulla partitocrazia è essenzialmente una polemica
di destra. Pretendendo di porsi come correzione di abusi compiuti nell'azione
dei partiti, essa ha di mira in realtà l'emergere di opinioni, l'affermarsi
d'interessi, l'elevarsi fino a posizioni di potere di ceti che si era abituati
a considerare fuori gioco. Ma le democrazie moderne con una vastissima base
popolare, con il necessario raccordo tra potere di vertice e fonte del potere,
con il significato sostanziale e non meramente formale che assumono, non
possono fare a meno della iniziativa politica dei partiti e dell'opera di
mediazione che essi svolgono, per dare efficace ispirazione ed effettiva base
di consenso, in ogni momento, allo Stato democratico. In realtà, quando i
partiti indirizzano e condizionano organi parlamentari e di governo, non è che
essi si sovrappongano prepotentemente agli organi costituzionali, condannandoli
alla passività ed all'impotenza, non è che operino di fronte ad essi come forza
estrinseca e senza ricevere a loro volta l'apporto di responsabili valutazioni
e di proprie iniziative degli organi costituzionali.
Questi
ultimi sono partecipi della vita dei partiti, sono dentro il complesso lavoro
di selezione e di indicazione di obiettivi politici che essi compiono. Quel che
i partiti indicano, Governo e forze parlamentari, che ne sono parte eminente,
hanno contribuito a determinare. Sono i partiti che danno all'azione politica
generale continuità, coerenza, unità, consentendo un'iniziativa parlamentare e
governativa sottratta alla disorganicità, la quale diventa fatale, ove non vi
sia chi faccia da collegamento con la volontà popolare ed assuma la
responsabilità, da una elezione all'altra, di precisi impegni politici, ai
quali dare attuazione nella varietà delle formule e delle articolazioni
parlamentari e governative.
Questa
armonia, che garantisce la continuità dell'impegno politico nel corso degli
anni, è stata naturalmente perseguita dalla D.C. e si è largamente realizzata.
I Governi che si sono succeduti ed i Gruppi parlamentari sono stati parte viva,
significativa, altamente responsabile nella vita della D.C., hanno contribuito
a fare del Partito quello che è nella realtà del Paese; si sono riconosciuti in
essa; hanno accettato con libera determinazione la qualificazione politica e la
disciplina conseguente che essi stessi in tutte le sedi hanno contribuito a
formulare. In rapporti come questi, così difficili e delicati è inimmaginabile
che non vi siano di quando in quando punti di frizione e che l'armonia non
emerga qualche volta con un certo sforzo, attraverso un processo di
chiarificazione ed una progressiva volenterosa intesa.
Ma
proprio perché si tratta di problemi così delicati e difficili, del rapporto
tra responsabilità così significative ed importanti, di un complesso gioco di
azioni e reazioni dal cui retto funzionamento dipende la normalità
costituzionale e quella politica, nessuno potrà pensare che vi sia da fare
ricorso ad altro che a quel saggio e prudente funzionamento del Partito che
ritrova ad ogni istante la sua unità nel libero gioco di tutte le sue
articolazioni ed espressioni.
Le
fonti dell'ispirazione ideale della D.C.
Per
completare la indicazione di quello che il nostro Partito si è sforzato di
essere in questi anni, mi sembra opportuno di richiamare le fonti e le ragioni
della ispirazione ideale della D.C.
La
D.C. ha alla sua origine e come elemento di qualificazione sempre attuale il
suo richiamo alla concezione cristiana della vita ed un costante riferimento ai
valori religiosi, spirituali e morali che appunto in essa sono affermati. La
D.C. pone a base della propria azione la visione cristiana dell'uomo e della
società, dei diritti di libertà e dei doveri di solidarietà sociale, della
sfera di autonomia propria della persona e dei gruppi sociali e del potere di
comando e d'intervento dello Stato. Essa trova questi ideali largamente vissuti
nell'esperienza storica alla quale il cristianesimo ha dato luogo nel corso dei
secoli. Se obiettivo di una forza politica che operi in una democrazia moderna,
è di salvaguardare nel modo più completo la dignità ed i diritti della persona
umana, dove la D.C. potrebbe attingere meglio ispirazione e guida se non
nell'ambito di una dottrina e di una esperienza che, come quella cristiana, dà
alla persona una posizione dominante e ne fa il principio e la fine di ogni
processo storico? E se si presenta, in una democrazia ricca di contenuto,
indissolubile da quella esigenza, l'altra di assicurare all'uomo in concreto il
suo giusto posto nella società, di legarlo in solidarietà significative, di
trovare una ragione d'incontro tra gli uomini, dove si potrebbe attingere più
utilmente che a quella dottrina ed esperienza cristiana che pone i doveri di solidarietà
accanto ai diritti di libertà, che punta sulla eguaglianza degli uomini, che
esclude egoismi e chiusure? La D.C. afferma dunque la piena idoneità della
dottrina sociale cristiana a risolvere nella sua interna coerenza ed armonia i
problemi della società democratica.
Le
collaborazioni alle quali la D.C. è stata e presumibilmente sarà chiamata in
avvenire con partiti ispirati a diverse ideologie, la situazione cioè, nella
quale essa si è trovata e può trovarsi ancora, d'incontrarsi con altre forze e di
concorrere con esse realizzare un programma comune, non ha significato in
passato e non significherà certamente in avvenire che la D.C. abbandoni suoi
principi ed ideali e si rassegni alla loro insufficienza. Una tale integrazione
del resto è sul terreno dei principi impossibile, proprio perché si tratta di
principi diversi e non conciliabili, mentre necessità ed opportunità politica
possono imporre o consigliare l'incontro tra forze ispirate a diversi principi,
le quali tuttavia convengano su alcune cose da fare, su alcuni obiettivi da
perseguire nell'interesse della comunità.
Più
specificamente, i valori morali e religiosi ai quali la D.C. s'ispira e che
essa vuole tradurre in atto il più possibile nella realtà sociale e politica
sono destinati ad affermarsi nella vita democratica del Paese, nella quale la
D.C. è inserita e nella quale essa li porta. Si tratta dunque di
un'affermazione non secondo l'assolutezza proprio di questi valori, ma nella
lotta, nel dibattito, nelle gradualità ed incertezze proprie della vita
democratica. Ciò dimostra il salto qualitativo che dati della coscienza morale
e religiosa sono costretti a fare, quando essi passano ad esprimersi sul
terreno del contingente, quando sono affidati ad una difesa sì efficace com'è
quella di un grande Partito, ma con gli strumenti ed i modi propri della lotta
politica. Ciò vale, naturalmente, in misura anche maggiore per quelle che sono
propriamente applicazioni o specificazioni di quei valori, scelte concrete di
ordine politico che evidentemente nessun cristiano s'indurrebbe a ritenere del
tutto estranee ai supremi valori della vita morale e religiosa, ma che
obbediscono tuttavia alla legge di opportunità, di relatività, di prudenza che
caratterizza la vita politica, che soprattutto risentono della necessità del
confronto, si affermano nella misura in cui riescono a conquistare il maggior
numero di consensi, si presentano su di un terreno comune con altre ideologie
il quale non può essere quello proprio delle idealità cristiane e con un
preciso e rigoroso criterio di verità. Questo dice quanto sia difficile e
tormentata la nostra azione sul terreno democratico e quali limiti si trovino
sul cammino dei cattolici impegnati nella vita politica, quali rischi si
corrano, quale senso di riserbo, di equilibrio, di misura siano necessari per
svolgere con vantaggio il difficile processo di attuazione della idea cristiana
nella vita sociale.
Anela,
dunque, perché è così grande l'impegno, anche perché vi sono tali remore e
riserve, anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e
rischiosa l'autorità spirituale della Chiesa, c'è l'autonomia dei cattolici
impegnati nella via pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita
democratica in un contatto senza discriminazioni. L'autonomia è Ia nostra
assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è
il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una
testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale. E nel rischio che
corriamo, nel carico che assumiamo c'è la nostra responsabilità morale e
politica e l'adempimento di un dovere costituzionale, il quale, essendo sancita
l'autonomia nel proprio ordine della comunità politica, riconduce in questo
ambito i diritti ed i doveri relativi alla concreta attuazione di essa. Il che
non vuol dire naturalmente che nell'esercizio di questi diritti e
nell'adempimento di questi doveri siano assenti valutazioni morali e religiose
o che nel loro esercizio ed adempimento sia richiesta una neutralità ideologica,
ché invece l'accettazione incondizionata di un terreno comune, quello del
dibattito e del libero convincimento, lascia libero l'apporto di ciascuno ed
ampio campo di esplicazione alle ispirazioni ed agli ideali presenti nella
realtà sociale del nostro Paese.
Le
consultazioni elettorali nel biennio
Nel
corso di questi anni la D.C. ha affrontato importanti competizioni elettorali
le quali hanno investito, sia pure sul terreno delle amministrazioni locali, si
può dire tutto intero il corpo elettorale. Si può notare che la consultazione è
avvenuta a più riprese, nei più diversi momenti politici, nelle più diverse
circostanze, con una continuità che ha fatto di questa prova un modo di essere
pressoché normale del Partito. E' poi da ricordare che le elezioni hanno
riguardato tutti i tipi di autonomie locali e cioè i comuni, le province, per
le quali è stata applicata per la prima volta la legge elettorale
proporzionale, e due regioni a statuto speciale che presentavano particolari
problemi ed esigenze.
Ora,
tenendo conto del carattere amministrativo delle consultazioni del corpo
elettorale alle quali si è proceduto e del loro snodarsi nel tempo, si può
apprezzare meglio il successo della D.C., della quale si è potuta riscontrare,
si può dire, momento per momento, e nell'intrico di difficili situazioni
locali, la presenza, l'autorità, la capacità di persuadere ed orientare. Tant'è
vero che la polemica obbligata, relativa al presunto indebolimento della D.C.,
si è andata spegnendo rapidamente. Il P.C.I., il quale aveva concepito
l'ambizioso proposito di condurre con successo una battaglia a fondo, per
rompere il cosiddetto monopolio politico della D.C., ha dovuto registrare la
permanente unità e forza della D.C. E così il Partito Socialista, che aveva
puntato su di un sensibile indebolimento del nostro Partito il quale potesse
consentirne un condizionamento più acuto ed efficace. Le destre di varia
osservanza infine, le quali attendevano una drammatica sconfessione da parte
del corpo elettorale per la D.C., accusata di avere ceduto alla prepotenza
comunista, hanno dovuto prendere atto dell'incoraggiamento e del riconoscimento
che proprio dal corpo elettorale sono venuti alla D.C. per la sua battaglia
democratica e la sua opposizione ad ogni totalitarismo. Tenuto conto dello
scarto costante precisamente misurabile che si riscontra per la D.C., per ben
comprensibili ragioni, tra risultati amministrativi e politici, come del resto
ho potuto documentare in Consiglio Nazionale, si può ritenere sulla base
dell'ultima consultazione che elezioni politiche troverebbero la D.C. non solo
con intatta posizione di forza, ma anche in sicuro progresso. È certo comunque
che la presenza nel Paese della D.C. è stata confermata in tutta la sua
determinante importanza così come è stata sottolineata ancora una volta la sua
funzione di garanzia e di guida della democrazia italiana. Il successo della
D.C. ha poi, in certo senso insperatamente, toccato in Sardegna il traguardo
significativo della maggioranza assoluta, premiando una impostazione di Partito
ed un'azione di Governo in tutto conformi alle attese delle generose genti
sarde. Il risultato ci pare vada sottolineato con senso di giusto orgoglio,
anche se non riteniamo se ne possa trarre senz'altro l'indicazione di una
tendenza generale del corpo elettorale. A questo proposito, oltre che le nostre
ben radicate convinzioni, anche l'esperienza sarda ci permette di respingere le
riaffioranti accuse rivolte al preteso integralismo della D.C., la quale in
Sardegna ha voluto rinnovare la feconda collaborazione con il Partito Sardo,
che ne aveva confortato e reso possibile nel passato quadriennio l'azione di
Governo.
Le
elezioni amministrative, a parte il successo innegabile della D.C., hanno visto
fermarsi in modo sensibile i partiti della convergenza democratica, i quali
hanno spesso riguadagnato posizioni di fronte ai risultati delle elezioni
politiche ed hanno potuto dimostrare ai facili critici come essi siano, pur con
un seguito ristretto, ma qualificato, forze politiche vive ed autorevoli nel
nostro Paese.
E'
stato poi registrato un ulteriore complessivo declino delle forze di destra, la
cui politica ha sempre minore risonanza nel corpo elettorale. Nell'ambito però
della destra si è determinato un rafforzamento delle posizioni estrema, che fa
riscontro ad analogo incremento dell'estrema sinistra a spese talora di
posizioni socialiste la cui ambiguità ha trovato una sanzione del corpo
elettorale. Tra i dati emergenti dalle recenti consultazioni elettorali è
doveroso registrare questo irrigidimento pericoloso delle estreme dello
schieramento politico, il quale conferma la giustezza della politica
responsabile di arbitrato democratico perseguita costantemente e soprattutto in
questo ultimo periodo dalla D.C. Del resto la D.C. ha sottoposto ad attento
esame fin nella sua periferia il fenomeno della permanente vitalità del P.C.I.
per ricavarne indicazioni significative per la sua azione politica. Essa non
intende sottovalutare la gravità del pericolo e l'esistenza di un problema
costituito dalla intatta forza del Partito Comunista, anche se si rifiuta di
prospettare un modo di lotta diverso da quello della piena attuazione ed
espansione della vita democratica del Paese che ha sinora praticato.
La
D.C. e le autonomie locali
Le
recenti elezioni amministrative ci hanno offerto una volta di più l'occasione
di riconfermare l'originario e permanente favore della D.C. per le libere
articolazioni dello Stato, per quelle autonomie locali con le quali ed
attraverso le quali il nostro Partito è assurto ad una posizione di alta e
crescente responsabilità nella vita pubblica. Questo favore riflette la nostra
fondamentale fiducia nelle complesse e varie manifestazioni della libertà, il
nostro convincimento che solo un modo di essere pluralistico della comunità,
rompendo gli irrigidimenti delle forme accentrate di vita e di potere, sia
idoneo ad esprimere il senso completo della libertà umana ed a realizzare un
coerente ordinamento democratico della società. Abbiamo avuto ed abbiamo
fiducia nelle autonomie locali come centri di interessi, di ideali e di poteri,
come strumento efficace per la soddisfazione delle esigenze popolari, come
meccanismo agile ed aderente alle necessità della programmazione
economica.
Queste
sono le posizioni di sempre della D.C., alla quale si deve poi se, in momenti
difficili della vita nazionale e della riedificazione dello Stato democratico,
le autonomie locali non sono state corrotte e asservite a finalità eversive,
tramutate in strumento di opposizione allo Stato democratico. Nessuno perciò ha
bisogno di richiamarci dal di fuori come all'adempimento di un dovere
costituzionale. Ci basta essere noi stessi, per affermare la necessaria,
istituzionale articolazione dello Stato democratico, per sottolineare con
particolare vigore, in questa rinnovata impostazione programmatica, il nostro
impegno di valorizzazione delle autonomie locali, ed il dovere dello Stato a
porre in essere in tema di legislazione dei lavori pubblici, della finanza
locale, degli ordinamenti e dei controlli, della politica sanitaria, assistenziale,
giovanile, scolastica, tutto quello che può ravvivare e rendere veramente
feconde le autonomie locali.
Non
accettiamo dunque lezioni dai comunisti, tiepidi ed opportunistici assertori
delle autonomie. Non accettiamo soprattutto da loro le critiche per i ritardi o
le remore che hanno caratterizzato per una parte la politica delle autonomie
locali, il che è appunto dipeso largamente dal rischio che talune importanti
articolazioni autonomistiche potessero essere egemonizzate dai comunisti ed utilizzate
a fini eversivi. Il nostro discorso per quanto riguarda gli impegni
autonomistici del Partito si estende naturalmente all'istituto regionale, la
cui attuazione è da completare a norma della Costituzione sia per quanto
riguarda le regioni a statuto speciale ancora da realizzare, sia per quanto
riguarda le regioni a statuto ordinario.
Le
difficoltà che si sono frapposte all'attuazione di questo istituto sono note e
sono di ordine politico generale. Non sottovalutiamo certo il problema del
finanziamento delle regioni e la necessità che esso sia raccordato al problema
generale, non ancora del tutto risolto, della finanza locale.
Non
ignoriamo il problema politico del tipo di maggioranza da stabilire in questi
importanti centri di potere, dei quali è difficile immaginare priva di
conseguenze la difformità dalle direttive politiche generali del Paese. Ed
infine non sottovalutiamo l'importanza delle leggi quadro dalle quali risultano
la delicata delineazione dei confini tra le competenze statali e quelle regionali
e la garanzia di un retto funzionamento dell'istituto autonomistico. C'è dunque
un complesso di problemi da risolvere e che debbono essere affrontati. Solo che
noi non riteniamo, per gravi che essi siano, che li si possa adoperare come
mezzi di rinvio dell'attuazione costituzionale. Essi sono e devono restare
problemi relativi alle modalità di attuazione, problemi ai quali dedicare tutta
l'attenzione che meritano senza pratiche elusive che sarebbero soprattutto in
questo momento ed allo stato di maturazione dell'opinione pubblica su questo
tema meschine ed incomprensibili. È stato detto che la Costituzione va
modificata là dove essa appaia di impossibile o svantaggiosa attuazione. Ed è
vero. Ma noi, pur con tutte le cautele che abbiamo letto, riteniamo che in
questa materia si debba procedere sulla via dell'attuazione non tanto in
omaggio alla lettera della Costituzione, ma nella originaria e rinnovata
consapevolezza della D.C. che nelle autonomie locali, nelle articolazioni a
tutti i livelli della vita democratica, nella creazione attraverso le regioni
di centri consistenti di raccordo tra gli enti sociali minori, come del resto
attraverso un vasto decentramento dell'amministrazione dello Stato, si avvicina
efficacemente la cosa pubblica al cittadino, si fonda stabilmente la democrazia
nel nostro Paese, si dà il miglior sostegno allo Stato democratico.
La
situazione internazionale
La
situazione internazionale, nei due anni che vanno dall'ultimo Congresso di
Firenze a questo di Napoli, ha registrato una serie di vicende assai
tempestose: sotto certi aspetti forse le più gravi di tutto il tormentato
periodo seguito al secondo conflitto mondiale, periodo durante il quale le
continue alternative tra la speranza della pace e il timore della guerra raramente
giunsero alla drammatica intensità che hanno avuto nei mesi alle nostre
spalle.
Prima
di valutare i caratteri ed i motivi di questo indubbio aggravamento delle
relazioni internazionali e prima di tracciare le prospettive che sembra di
poterne ricavare per il futuro, credo torni utile confrontare quali erano le
situazioni in presenza delle quali ci incontrammo nell'autunno del 1959 a
Firenze e le situazioni di fronte alle quali ci troviamo oggi. Il Congresso di
Firenze si aprì nell'atmosfera di moderato ottimismo suscitata dal famoso
incontro di Camp David tra Eisenhower e Kruscev, che ebbe luogo tra il 25 e il
27 settembre del 1959. L'on. Segni, che era allora Presidente del Consiglio,
poté portarci un'eco diretta ed autorevole di ciò che quell'atmosfera lasciava
sperare, avendo avuto proprio pochi giorni prima del Congresso l'occasione di
incontrarsi a Washington con Eisenhower a brevissima distanza dai colloqui del
Presidente americano con il Capo del Governo sovietico. La crisi d Berlino, già
allora impedente, sembrava uscita dalla fase minacciosa degli ultimatum ed
avviata verso il negoziato. Anche l'eterna pietra di paragone del disarmo
pareva prospettare un certo possibilismo: il 2 novembre del 1959 l'Assemblea
delle Nazioni Unite aveva infatti votato una risoluzione concordata, in cui si
affiancavano le firme del delegato americano e del delegato sovietico, piena di
promesse per i futuri sviluppi delle annose trattative in tema di interdizione
delle esplosioni nucleari e di graduali intese per una generale limitazione
degli apparati militari. Su quei due temi — Berlino e disarmo — che sono stati
e continuano ad essere i temi di fondo della guerra fredda, i primi passi del
1960 si mostrarono incoraggianti. In gennaio Kruscev diede ampia pubblicità alla
sua decisione di ridurre gli effettivi militari dell'Unione Sovietica, nel
marzo si riunì a Ginevra il Comitato dei Dieci per il disarmo, e la morsa —
fisica e psicologica — che aveva serrato Berlino alla gola dal novembre 1958
parve allentarsi in previsione di nuove trattative imminenti.
Questo
era lo spiraglio di luce di due anni fa.
Oggi
nel cuore di Berlino è stato rizzato un muro di pietra, e nelle distese
dell'Artico è stata fatta esplodere la più gigantesca e micidiale di tutte le
armi che il genere umano abbia mai annoverato nella sua millenaria esperienza
di guerre e di distruzioni. E' vero: si riparla anche ora di negoziati, di
dialogo, della impossibilità che vi siano alternative alla pace, se la guerra è
divenuta una soluzione così terribile da paragonarsi ad un suicidio per il
genere umano. Ma anche essendo convinti di questa elementare verità, non
possiamo non constatare che i limiti entro i quali si minaccia l'uso della
forza — sia pure, vogliamo credere, con la determinazione di non impiegarla —
sono arrivati all'estremo margine della logica, il quale è anche l'estremo
margine del rischio; e che si è voluto deliberatamente adoperare questo
strumento di pressione di una guerra "evitabile" ma
"possibile" stabilendo, per suo mezzo, aree sempre più condizionate
di negoziato. È indubbio infatti che le trattative su Berlino e su disarmo,
così come potevano concepirsi due anni fa al tempo di Camp David, sono
sensibilmente diverse da quelle che possiamo immaginare oggi, dopo la ripresa
delle esplosioni nucleari sovietiche e dopo che si è rinnovata e accentuata la
pressione sui settori occidentali di Berlino.
Ebbene,
sul terreno politico e su quello morale, questo Congresso non può non
manifestare protesta e disapprovazione per tutti gli atti politici che con la
minaccia di apocalittiche distruzioni e con lo strumento del terrore sono stati
volti ad ottenere unilaterali modificazioni dell'ordine costituito. La chiave
di volta dei mutamenti intercorsi tra il tempo del Congresso di Firenze e il
tempo del Congresso di Napoli va cercata, come tutti ormai riconoscono, nel
clamoroso fallimento del "vertice" di Parigi, consumato nelle amare
giornate di maggio del 1960.
In
che modo si uscirà da questa situazione? Io credo sia soprattutto una prova di
lunga pazienza e di costante fermezza, una prova di volontà, di forza morale
non meno che di forza materiale, poiché anche questa è necessaria a mantenere
determinati equilibri. Il negoziato è una soluzione logica, sia per alternative
di cui abbiamo parlato, e che sono alternative reali; sia perché il negoziato è
l'arma vera della politica, il punto d'arrivo civile di ogni società che voglia
coscientemente salvare il mondo dagli orrori della guerra.
Bisogna
dunque negoziare e ancora negoziare. Ma non vi sarebbe negoziato valido se non
risultasse da una libera manifestazione di volontà: e se in esso non fossero
equamente considerati gli opposti principi, gli opposti interessi, le vitali
necessità dell'una e dell'altra parte. Non è realistico, e può essere estremamente
pericoloso, pensare ad un arretramento del mondo comunista ottenuto con la
forza, quali che siano le ragioni di libertà, di diritto, di moralità
compromesse dalla sua avanzata. Ma sarebbe inammissibile, ed esso pure
estremamente pericoloso, un arretramento del mondo occidentale. Si tratta di
negoziare, per conservare e rendere più stabile, più umano, più accettabile
l'equilibrio dei grandi interessi che si dividono il mondo.
La
più autorevole e solenne delle voci, quella del Pontefice Giovanni XXIII, interpretò
dall'altezza del Suo magistero e con la ricchezza delle Sue esperienze il punto
vero della questione, quando invitò in un recente messaggio i reggitori del
potere terreno a «trattative libere e giuste». Sono prospettive nelle quali noi
crediamo e alle quali siamo pronti. Ma le due qualificazioni di libertà e di
giustizia, sono per noi ineliminabili dallo strumento politico del negoziato.
Sono le condizioni morali che possono rendere il negoziato, oltre che
accettatile, utile ed opportuno.
La
politica italiana in campo internazionale
Ci
si può chiedere a questo punto quale sia la politica che in campo
internazionale l'Italia può fare per contribuire a raggiungere simili
obiettivi. lo credo, in primo luogo, che il nostro sia in questo momento un dovere
di chiarezza. La fedeltà e la coerenza sono, anche nelle relazioni
internazionali, basilari virtù: fedeltà alle proprie alleanze, che furono
liberamente scelte dalla maggioranza popolare; coerenza ai principi che ci
indussero a compiere quelle scelte, e che rimangono fermi capisaldi dei nostri
orientamenti e della nostra azione. Noi crediamo che in un momento in cui gli
oppositori dell'Occidente ostentano la forza per farne strumento di operazione
politica, il primo e più necessario comportamento dell'Occidente sia quello di
non disperdere la propria, di tenerla compatta ed efficiente. La linea
atlantica della politica italiana non è mai venuta meno in oltre dieci anni di
nostra fedele ed attiva partecipazione a questa preziosa alleanza, che ha
validamente contribuito alla difficile conservazione della pace nel mondo.
Certo non verrà meno ora, in un momento in cui forse stanno per sommarsi tutti
gli sforzi compiuti, tutte le posizioni difese, tutte le integrità
salvaguardate. E se diciamo — come abbiamo detto — che questa fedeltà deve
essere una fedeltà intelligente, non cieca; una fedeltà ragionata e cosciente,
non illogica; una fedeltà che comporta la rinunzia a dare il contributo della
propria valutazione all'alleanza, ma anzi esige questo leale intervento; ci
sembra di dire cosa che accresce, e in nessun modo e sotto nessun aspetto può
attenuare la nostra determinazione di attivi e impegnati partecipanti ad un
patto che riteniamo essenziale per la nostra libertà e per la pace del
mondo.
L'obiettivo
delle alleanze e di tutti gli atti della nostra politica internazionale è
dunque la preservazione della pace e la creazione delle condizioni che la
favoriscono ed in definitiva la rendono possibile. Tra queste condizioni c'è
anche quella fermezza che scoraggia l'altrui prepotenza ed aggressione. Ma tra
esse rientrano anche il realismo, la moderazione, il rifiuto ad ogni
irresponsabile estremismo, l'esatta valutazione del modo di essere del mondo di
oggi e degli immensi rischi del conflitto nucleare, l'interesse e la volontà di
mantenere il contatto con il blocco dell'Est per cogliere ogni occasione che si
offra di assicurare l'equilibrio del mondo e la pace.
In
questo senso si può ben dire che per l'Italia, e non solo per l'Italia, la
fedeltà all'alleanza difensiva dell'Occidente non preclude, ma anzi postula la
distensione nei rapporti tra i blocchi per un mondo pacificato.
Desidero
altresì confermare in questo momento la considerazione e la fervida adesione
data dall'Italia alle Nazioni Unite le quali, pur con inevitabili deficienze,
rappresentano il foro significativo della opinione pubblica mondiale ed il
preludio ad un assetto organicamente ordinato e veramente pacifico del
mondo.
Un
altro dovere della politica italiana è quello di perseverare sulla strada, già
così densa di risultati e oggi arricchita di nuove promesse, della unificazione
europea. Vogliamo ribadire la nostra ferma convinzione che queste due linee
costanti della politica italiana, dal tempo di De Gasperi senza soluzione di
continuità fino ai nostri giorni, vale a dire la linea atlantica e la linea
europeistica, sono state e sono entrambe validi contributi alla pace che il
nostro Paese può fornire. Sono due linee insostituibili e necessarie, due linee
di progresso democratico e di evoluzione nella libertà. Tra i fatti salienti
dei due anni che intercorrono tra il Congresso di Firenze e il Congresso di
Napoli vi è senza dubbio l'arricchimento costante delle azioni intraprese per
rafforzare ed estendere il processo di unificazione europea. I Governi italiani
succedutisi in questo periodo hanno operato con saggezza ed efficienza per
conservare una dinamica forza di espansione ai risultati che via via si
venivano raggiungendo e una elastica possibilità di manovra davanti agli
ostacoli che una impresa così ardua complessa non poteva mancare di frapporre.
Siamo lieti di poter annoverare tra i successi di questa azione la decisione
britannica di rompere gli indugi e le perplessità che la trattenevano dal
mettersi insieme a noi su di un cammino di sforzi comuni e di prospettive
comuni. L'ultima volta che il Primo Ministro inglese Mac Millan fu ospite di
Roma, nel dicembre del 1960, egli affermò che «quando si tengono vie separate
nella difesa dei propri interessi economici, si finisce fatalmente per tenere
vie separate nella difesa dei propri interessi politici». È questa chiara
visione della realtà che ha portato l'Inghilterra alla sua scelta
coraggiosa.
Decidendo
di negoziare per entrare nel Mercato Comune, la Gran Bretagna sta per porre la
parola fine alla sua lunga, secolare tradizione di splendido isolamento. Il
processo di unificazione europea ha raggiunto, in questo rivoluzionario
avvenimento, uno dei suoi traguardi più difficili e più necessari. Salutiamo la
decisione britannica con amichevole compiacimento, con fervida speranza, come
un sicuro auspicio dei successi che insieme — su questa strada — ci
attendono.
Ma
desidero anche sottolineare come una costante essa pure della nostra politica,
che il profondo interessamento italiano alla comunità europea non attenua i
vincoli di amicizia e di collaborazione con altri popoli particolarmente vicini
per storia, civiltà, interessi comuni all'Italia, soprattutto nell'America
latina e nel bacino del Mediterraneo.
Un
altro settore al quale va il nostro sguardo con particolare interesse in questa
rassegna della situazione mondiale è l'area delle nuove indipendenze, dei continenti
in fase di sviluppo e dei popoli che stanno giungendo — talora felicemente,
talora faticosamente e con turbate vicende — alla ribalta delle civili libertà.
In questi due anni non meno di venti Paesi sono entrati a far parte della
comunità delle Nazioni Unite: quasi tutti i Paesi africani, dato che l'Africa è
stato l'ultimo continente ad uscire dagli schemi delle vecchie sovranità
coloniali ed anzi non ne è ancora completamente uscito. E' stato detto,
appunto, che il decennio degli anni sessanta sarà il decennio dell'Africa. È
una affermazione ricca di speranze e di opportunità, sottolineate in una parte
del mondo che più delle altre era rimasta arretrata in confronto al ritmo della
civiltà e della prosperità comune. Ma occorre subito aggiungere che se il
decennio in cui ci siamo inoltrati dovrà lasciare il segno di una umanità più
felice e più giusta, così come noi con cristiana coscienza dobbiamo volere e
sperare, questa impresa deve valere per tutte le frontiere della miseria, della
arretratezza, per tutti quei milioni di uomini sulla terra — centinaia di
milioni — che non hanno la sicurezza del domani. Mi si permetta qui di
ricordare la portata politica di questo dovere umano con le parole del
Presidente degli Stati Uniti d'America, il cattolico e democratico John
Kennedv: «A coloro che nelle capanne dei villaggi di metà del globo lottano per
spezzare le catene della miseria — ha detto Kennedy il 20 gennaio del 1961,
quando entrò un anno fa in possesso dei suoi poteri presidenziali — noi
promettiamo di ricorrere a tutti i nostri sforzi per aiutarli ad aiutarsi, per
tutto il tempo che sarà necessario, non perché lo fanno anche i comunisti, non
perché ricerchiamo il loro voto o Ia loro simpatia, ma perché ciò è giusto. Se
una forma di società libera non può aiutare i poveri, che sono numerosi, essa
non potrà mai salvare i ricchi, che numerosi non sono».
Non
ho bisogno di sottolineare a voi l'importanza, il vigore, il coraggio di una
simile affermazione. Ma sento di poter dire, insieme con voi, che un uomo il
quale sia capace di tali propositi, e intenda porli a caposaldo della sua
azione politica, è degno di guidare il grande Paese alla cui testa è stato
messo dalla libera scelta di una elezione popolare. Per gli anni di lotta e,
abbiamo fiducia, di successo che egli ha davanti a sé, e che saranno anche —
inscindibilmente — gli anni delle nostre lotte e dei nostri successi, mi sia
consentito di rivolgere a John Kennedy dalla tribuna di questo Congresso il
fervido augurio della Democrazia Cristiana d'Italia.
Il
nostro Paese crede nei doveri della civiltà, per una tradizione e un costume
operanti da secoli. A questi doveri ha dedicato nobilissime pagine di storia, e
generoso sangue dei suoi figli. Io qui ricordo con animo commosso il barbaro
eccidio dei tredici aviatori di Kindu, periti nel cuore dell'Africa sulla
travagliatissima strada della pace. Ma dico anche che il loro sacrificio non
deve farci dubitare né retrocedere sulla via che abbiamo iniziato e che
riteniamo giusta. L'episodio di Kindu è un episodio di crudele violenza: ebbene
noi non potremmo combattere la violenza altro che con la civiltà, noi non
potremo combattere la barbarie altro che con la libertà, noi non potremo
combattere l'odio altro che con una fede sicura e con opere attive per il progresso
di tutti i popoli verso una vita più giusta. E il monito di Kindu valga per
tutte le violenze da cui siamo circondati, per tutte le barbarie che ancora si
compiono sulla terra, per tutti gli odi che ancora dividono gli uomini.
Le
scelte di fondo della politica economica e sociale
Una
ricerca della linea politica economica oggi più conveniente per il nostro Paese
si trova subito di fronte al fatto veramente singolare che, sulla base spesso
degli stessi elementi, si danno, di tale processo e dei suoi risultati,
valutazioni del tutto opposte: da un lato si esalta l'intensità e la continuità
del nostro progresso economico in termini che presuppongono la persuasione che
ogni nostro problema potrà trovare col tempo soluzione pressoché automatica;
dall'altro si rappresentano i nostri squilibri in termini talmente gravi da
autorizzare un giudizio negativo sia sul processo che si è fin qui svolto sia
sugli sviluppi che le posizioni raggiunte possono consentire.
Una
riflessione anche breve sulle vicende ultime della nostra economia e sulla
natura delle scelte possibili nella situazione che si è creata, è certamente
sufficiente per mostrare la unilateralità dei due ordini di giudizi e la loro
sterilità in sede di ricerca dell'indirizzo più conveniente, soprattutto una
simile riflessione mi sembra utile perché essa può contribuire alla
riaffermazione dell'unità del nostro Partito, in quanto dà a tutti noi una base
comune nella valutazione di quanto abbiamo compiuto fino a oggi.
Orbene,
se ci domandiamo quali sono stati i criteri ispiratori della nostra azione
passata, noi possiamo affermare che due scelte di fondo vennero fatte nel
nostro Paese a partire dall'immediato dopoguerra, con l'apporto determinante
del pensiero politico-economico del nostro Partito.
La
prima scelta di fondo è costituita dal proposito di ricostituire un'economia di
mercato che superasse di colpo le inefficienze e i corrompimenti della politica
autarchica e che, svolgendosi in modo deciso, non solo sul piano interno ma
anche su quello internazionale, introducesse nella sfera pubblica come nella
sfera privata uno stimolo incessante alla ricerca di un rendimento crescente
del lavoro italiano e, nello stesso tempo, creasse automaticamente nel sistema
economico nazionale una prima ed efficace componente antimonopolistica
indubbiamente necessaria nel quadro lasciatoci dalle tristi vicende del
passato. Le azioni fondamentali svolte negli anni scorsi nei vari settori della
nostra politica economica ci appaiono oggi ordinate in gran parte a questa
finalità: dalla politica monetaria e bancaria alla politica di bilancio, dalla
politica fiscale alla politica degli scambi internazionali, al criterio,
infine, secondo il quale le aziende del settore pubblico dovevano cimentarsi
sul mercato in parità di condizioni con le aziende private.
L'altra
scelta fondamentale fatta fin dall'inizio consiste nel proposito di individuare
le situazioni di arretratezza economica e sociale, i punti di squilibrio che le
forze di mercato non avrebbero potuto eliminare e di far luogo a istituzioni e
a iniziative dirette a riportare queste situazioni al livello della restante
economia nazionale: ecco quindi l'azione svolta nel Mezzogiorno con strumenti
che, nel quindicennio post-bellico, non hanno fatto che affinarsi e potenziarsi,
ecco l'azione degli enti di riforma e, in generale, l'insieme di misure prese
nei riguardi del settore agricolo, ecco l'opera massiccia svolta dalla Cassa
del Mezzogiorno, ecco l'azione svolta dai due grandi enti di gestione, IRI e
ENI, che, uscendo dai vecchi schematismi delle nazionalizzazioni, vennero fin
dall'inizio dichiarato il primo e concepito il secondo come istituzioni
permanenti del nostro ordinamento. È appena necessario ricordare la diversità
della concezione che ha presieduto alla strutturazione e alla azione di tutti
gli enti sopra ricordati da quella che prevalse nel dopoguerra in altri Paesi
del mondo occidentale, dove massicce e vistose nazionalizzazioni non hanno
certo dato luogo né agli sviluppi operativi che si sono avuti presso di noi, né
alla creazione di istituzioni che oggi ci appaiono più conformi alle esigenze
di uno Stato moderno.
Quanto
queste due scelte di fondo, ispirate a principi che potrebbero ritenersi
contradditori, siano risultate essenziali per portare alla situazione odierna
il nostro sistema economico devastato dalla catastrofe bellica e dalle
precedenti politiche, lo dice la circostanza che oggi noi non riusciremmo ad
immaginare il progresso fin qui compiuto in un sistema che da un lato avesse
rifiutato quegli orientamenti di mercato che specie sul piano internazionale
sono stati tanto aspramente contrastati e dall'altro non avesse dato vita a
quelle istituzioni e a quegli interventi che pure vengono da altre correnti di
pensiero continuamente avversati.
E,
anticipando considerazioni cui lo svolgersi del discorso ci porterà più tardi,
giova fin d'ora rilevare che se oggi noi possiamo da un lato guardare con
fiducia a un avvenire in cui l'ulteriore progresso economico è subordinato al
superamento di concorrenze internazionali ogni giorno più aspre e se dall'altro
lato possiamo configurare interventi che siano veramente alla scala degli
squilibri da superare, ciò si deve proprio al fatto che l'azione pubblica nel
campo economico è riuscita coerentemente a svolgersi nel suo insieme su una
difficile linea di equilibrio tra principi che in astratto si presentano come
opposti, e la cui combinazione si è invece rivelata non solo come possibile, ma
addirittura come generatrice di un moto di progresso rilevante, non discontinuo
e comunque non concepibile nell'ambito esclusivo dell'una o dell'altra
concezione.
Non
vedo infatti come in una situazione di rottura di questo equilibrio si
sarebbero potuti raggiungere risultati di tanto rilievo; e non vedo neppure
come una simile rottura si sarebbe potuta evitare senza l'apporto delle forze
che si esprimono nel nostro Partito.
I
risultati dell'azione svolta
Quali
sono, in sintesi, i risultati dell'azione svolta? Nel rispondere a questa
domanda, noi possiamo ormai tenere conto anche dei risultati acquisiti a tutto
il 1961, risultati che i nostri enti di ricerca, e alludo in particolare
all'ISCO, hanno ormai messo a nostra disposizione.
Orbene,
anche se noi escludiamo dalla nostra valutazione il quinquennio 1945-50, in cui
la rapidità di ripresa è giustificata dalla necessità e dalla ovvietà dei
programmi di ricostruzione, e consideriamo quindi soltanto l'undicesimo
trascorso dopo il 1950, noi rileviamo un saggio di progresso globale che, senza
suscitare obiezioni, può essere qualificato eccezionale non solo e non tanto in
riferimento alla storia del nostro Paese, ma anche all'insieme di esperienze
che ci offre il mondo contemporaneo.
Nel
periodo considerato il saggio di aumento del reddito nazionale in moneta avente
potere di acquisto costante è stato infatti del 6 per cento; in tale periodo si
sono creati oltre tre milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro, dopo aver
riassorbito la rilevantissima sottoccupazione che in molti settori ancora
esisteva nel 1950; questo andamento ha permesso l'assorbimento nelle attività
industriali e terziarie di tutto l'aumento naturale della forza di lavoro che
si è avuto nel Paese e il trasferimento in tale attività di un milione di
lavoratori prima addetti all'agricoltura.
Altri
dati significativi sono i seguenti: i consumi privati sono aumentati a un tasso
del 4 per cento annuo contro un tasso dello 0,5 per cento avutosi in tutto il
periodo trascorso dall'unificazione italiana sino alla seconda guerra mondiale;
gli investimenti in abitazioni sono aumentati a un saggio medio del 13 per
cento annuo; i nostri conti con l'estero sono più che pareggiati e si è per di
più costituita una ingentissima riserva d'oro e di valute pregiate.
Tutto
ciò dà al nostro Paese una posizione di forza, di autonomia e di prestigio il
cui significato va bene al di là del piano economico ed è comunque una
espressione sintetica e decisiva del grado di capacità competitiva raggiunta
dal lavoro italiano sul piano mondiale.
L'eliminazione
degli squilibri presenti nella vita italiana
Il
progresso economico della nostra società ovviamente non si misura solo in
termini globali; un giudizio compiuto richiede anche una considerazione del
modo con cui si ripartono i frutti del progresso e più precisamente della
misura in cui gli squilibri esistenti nella società italiana vanno
correggendosi.
È
pur vero che un intenso progresso globale e l'aumento di occupazione e del
generale livello dei consumi che esso determina sono in sé fattori di
riequilibramento, come ognuno può facilmente constatare senza far ricorso a
elaborazioni statistiche, in base alla sola propria esperienza personale.
Rilevanti
però sono gli squilibri che tuttora permangono ed è su di essi che mi preme
intrattenervi.
Al
riguardo non vi è dubbio che i traguardi oggi raggiunti in fatto di produzione,
la solidità assunta dal nostro sistema economico, le prospettive di ulteriori
progressi che ad esso si dischiudono, tutto ciò non solo consente ma anche
esige che alla eliminazione degli squilibri ci si dedichi con maggior copia di
mezzi e soprattutto con rinnovato impegno.
Premesso
tutto ciò, sono certo che noi tutti concordiamo nel pensiero che lo squilibrio
fondamentale della società italiana è pur sempre rappresentato dal fatto che
una parte della nostra forza di lavoro non è occupata a livelli moderni di
produttività.
Questo
fondamentale problema nostro si presenta però oggi in una luce del tutto nuova;
effetto anche questo del rilevante progresso economico avutosi negli ultimi ami
e in particolare della dilatazione, a livello possiamo ben dire mondiale, che è
avvenuta nel nostro sistema produttivo. Nell'Italia povera di capitali che fino
ad epoca recentissima eravamo soliti rappresentarci, la piena occupazione era
una eventualità desiderabile ma non suscettibile di essere definita in un
obiettivo preciso da perseguirsi direttamente; e ciò in quanto l'attuazione di
uno stato di piena occupazione dipendeva da elementi in misura preponderante
sfuggenti al controllo dell'azione politica; la degenerazione autarchica può
del resto giudicarsi proprio l'effetto di un'azione ispirata alla pretesa di
dominare tutti gli elementi esterni condizionanti un simile processo. Il fatto
stesso che lo schema Vanoni si ponesse come obiettivo diretto la creazione di
un numero determinato di posti di lavoro, e più precisamente quattro milioni, e
non l'obiettivo della piena occupazione è indice eloquente del progresso che in
breve giro di anni è stato compiuto in questa materia.
Dalle
posizioni che abbiamo ormai raggiunte per effetto della politica ispirata ai
criteri detti in principio, la piena occupazione può invece presentarsi
finalmente, come obiettivo collocabile nel tempo con sufficiente
approssimazione, come sbocco di uno svolgimento logico di un sistema di forze
già in atto.
Ne
è prova il fatto che il nostro dibattito verte oggi non più sulla
ragionevolezza di quell'obiettivo ma sulle modalità con cui il processo di
pieno impiego si viene svolgendo. La considerazione del fatto che la nostra
forza di lavoro è inadeguatamente utilizzata ci pone subito di fronte ai
problemi dell'agricoltura; e la trattazione di questo problema ci consente
anche di mettere in luce la massima componente del problema del
Mezzogiorno.
Il
Mezzogiorno
Una
considerazione attenta dei problemi della nostra agricoltura è d'importanza
pregiudiziale per una valutazione dei termini attuali del problema del
Mezzogiorno. Lo scarto tra produttività del lavoro industriale e produttività
del lavoro agricolo tende ad accrescersi ulteriormente per una circostanza che
sfugge interamente al nostro controllo essendo essa costituita dal tipo delle
tecniche che il mondo contemporaneo sta acquisendo. A motivo di tale fenomeno
l'equilibrio economico sociale del Mezzogiorno esige oggi un livello di
produttività in agricoltura molto più alto di quello da tutti previsto ancora
pochi anni fa; e in conseguenza l'esodo dall'agricoltura sarà
corrispondentemente maggiore.
Il
secondo fatto di enorme rilevanza è l'effetto prodotto sulla disponibilità
meridionale di mano d'opera dall'intensità con cui procede lo sviluppo
industriale italiano e in generale lo sviluppo di tutto il mondo occidentale:
la maggior domanda di forze di lavoro che questo fenomeno determina fa oggi
profilare la possibilità che il pieno utilizzo delle forze di lavoro
meridionali possa aver luogo come effetto di un esodo massiccio delle forze di
lavoro disponibili nella regione. Un esodo di tali proporzioni, se può
soddisfare la legittima aspirazione del singolo lavoratore ed essere inserito
in un sistema produttivo moderno, lascerebbe pur sempre il Mezzogiorno con una
struttura produttiva e quindi anche sociale non soltanto squilibrata ma neppure
più correggibile; in conclusione, se da un lato l'esodo necessario all'equilibrio
è maggiore di quello fin qui previsto, dall'altro lato questo esodo potrebbe
avere luogo in forme non compatibili con le linee di sviluppo che,
nell'interesse della regione e del Paese tutto, abbiamo fissato. Da qui la
necessità di un ulteriore intensificazione del processo di industrializzazione
ora in corso, nel Mezzogiorno.
Quanto
alle politiche da adottare a tale fine non c'è dubbio che noi possiamo molto
chiedere all'industria a partecipazione statale proprio in virtù della
struttura del tutto moderna che il settore ha tipicamente assunto nel nostro
Paese. La circostanza che IRI e ENI, pur sorti in circostanze storicamente
diverse, si siano andati espandendo ed affermando in direzioni molteplici
secondo la formula modernissima del gruppo integrato, ci consente infatti oggi
di affidare ai due enti un compito che, pur restando sempre sul piano delle
aziende di maggiori dimensioni, non trova preclusioni di ordine per così dire
settoriale. E ci sia consentito di osservare al riguardo, nella presente delicata
fase di ripensamento delle strutture delle nostre istituzioni e di confronto
tra le ideologie che presiedono alla loro elaborazione, che una simile
possibilità d'azione non ci sarebbe consentita se, come da qualche parte si
chiedeva, ci fossimo messi sulla strada delle nazionalizzazioni di settore o —
il che fa lo stesso — di una strutturazione per settori della politica di
intervento. Come potremmo chiedere alle aziende nazionalizzate del tipo Azienda
Ferroviaria o Amministrazione delle Poste e Telegrafi o a Enti di gestione
specializzati anche di grandi dimensioni di concepire Interventi nei settori
che non sono loro propri? Lo straordinario arricchimento che l'azione dello
Stato riceve per effetto del ricorso agli Enti di gestione di grandi dimensioni
operanti in campi molteplici è particolarmente prezioso nel tipo di azione che
si richiede allo Stato in una zona non industrializzata come è il Mezzogiorno;
non a caso del resto l'istituto della nazionalizzazione è fiorito nei Paesi in
cui un'attività di promozione di nuove industrie non era richiesta, oppure nei
Paesi in cui tale azione pur necessaria non era contemplata dalle forze al
potere, come avvenne in passato da noi.
E
non credo sia azzardato dire che in presenza dell'intenso progresso che ha luogo
nelle regioni settentrionali e della loro crescente integrazione nel sistema
industriale europeo le risorse addizionali e le energie dei nostri enti di
gestione debbono sempre più essere indirizzate a favore delle regioni
meridionali.
Le
regioni meridionali potrebbero così disporre di centri produttivi di grandi
dimensioni operanti in campi molteplici e quindi dotati di vasti quadri tecnici
facilmente mobilizzabili nelle direzioni non prevedibili che il progresso
tecnico continuamente dischiude.
Né
minore sarebbe il contributo che simili strutture differenziate porterebbero
alla soluzione del problema della formazione professionale delle forze di
lavoro meridionali. E' noto quanto la formazione professionale dipende
dall'esistenza di nuclei industriali capaci di fornire i quadri insegnanti
delle istituzioni extra scolastiche. Ma se l'industria non esiste ancora, dove
le regioni sottosviluppate potranno trovare questi quadri insegnanti? Ecco
quindi un altro campo vitale d'interventi per un'industria statale organizzata
come nel nostro Paese su basi integrate.
Così
delineato il ruolo che l'industria a partecipazione statale dovrà assumere in
una rinnovata visione della politica di industrializzazione del Mezzogiorno,
occorre subito aggiungere che noi non potremmo accettare il pensiero che un
simile allargamento della iniziativa pubblica potrebbe coprire il vuoto
eventualmente lasciato da una iniziativa privata che fosse riluttante ad
impegnarsi anche nelle regioni meridionali. Una simile concezione che talvolta
affiora negli ambienti più vari deve giudicarsi la più catastrofica tra le
molte che in un secoli di vita unitaria hanno colpito il Mezzogiorno.
La
politica di sviluppo
Altro
criterio informatore della nostra politica economica ritengo debba essere
quello che l'eliminazione degli squilibri non deve concepirsi come un'azione
correttrice di quanto già è avvenuto, ma come una componente della politica di
sviluppo. Noi possiamo legittimamente porre al centro della nostra politica una
simile concezione per un triplice ordine di motivi:
—
perchè noi possediamo più che in passato strumenti sufficienti per conoscere,
prevedere e orientare la realtà economica e sociale;
—
perchè nel quadro tecnico contemporaneo hanno luogo mutamenti tanto rapidi e
tanto profondi da rendere tardiva e inadeguata ogni azione equilibratrice
concepita come una correzione fatta a posteriori e non come una componente di
uno sviluppo pensato in funzione di determinati valori di giustizia e di
libertà;
—
perché il livello di reddito raggiunto dal nostro Paese, l'accumulo di
ricchezza e di conoscenze tecniche che si è già effettuato permettendo di
dotare la componente sociale del processo di sviluppo di mezzi molto maggiori
che in passato.
Ho
osservato in principio che l'impostazione data in passato alla nostra politica
economica non solo ha creato le condizioni necessarie perché avesse luogo il
grande progresso degli ultimi anni, ma ha posto anche le premesse sia sul piano
interno, sia su quello internazionale, per l'ulteriore continuazione di un
simile progresso.
Questa
confortante constatazione non deve però farci ritenere che la continuità di
progresso sia qualcosa di automatico prodotto dal meccanismo di mercato; al
contrario responsabilità nuove sono sorte per la nostra politica economica dal
profondo e crescente inserimento dell'economia italiana nell'economia mondiale.
Se da un lato questo fatto di portata veramente storica è garanzia di
efficienza all'interno e di maggior forza nei riguardi dell'esterno, dall'altro
lato la nuova situazione esige che il nostro sistema produttivo si mantenga in
linea con i sistemi più avanzati al cui livello si è ora portato e nello stesso
tempo ci espone più che per il passato a contraccolpi di vicende esterne che
sfuggono al nostro controllo. La nostra politica futura dovrà quindi dare luogo
a tutte le iniziative capaci di rendere rilevante e continuo il moto di
progresso e dovrà, nello stesso tempo, essere pronta a evitare che le
fluttuazioni della economia internazionale abbiano riflessi depressivi sulla
nostra situazione economica interna; effetti che sopportabili da economie
mature, si risolverebbero invece in gravi turbamenti in una economia come la
nostra, dove l'accumulazione di capitale è ancora insufficiente.
Importanza
crescente è destinata ad assumere in questo quadro la politica nei riguardi dei
Paesi in via di sviluppo; l'Italia che ancora pochi anni fa era, in quanto
Paese povero di capitali, prenditrice di capitali sul mercato internazionale,
si è rapidamente trasformata in Paese prestatore. Noi siamo certamente chiamati
ad intensificare l'azione di assistenza verso quei Paesi, e non dobbiamo
rifiutare una tale assistenza proprio a motivo del valore particolare del
contributo che il nostro Paese può portare a quel processo di decolonizzazione
che il mondo contemporaneo deve rapidamente condurre a termine se vuole creare
una premessa essenziale ad una stabile organizzazione della convivenza
mondiale; e quando parlo di contributo italiano a un simile processo penso non
tanto all'aspetto finanziario, quanto a quello tecnico e più in generale
culturale, umano. E' un fatto che le nostre istituzioni, i criteri della nostra
politica suscitano un interesse crescente, checché ne dicano i detrattori
sistematici di ogni nostra azione, presso i Paesi in via di sviluppo; deve
essere nostro proposito quello di rendere sempre più accessibile ai quadri
direttivi di quei Paesi la nostra esperienza i modi di sviluppo di una società
libera in via di rapida trasformazione.
Caratteri
di una politica economica ispirata agli ideali della D.C.
Non
ci siamo ora qui riuniti per definire un programma organico di Governo: il
nostro compito è quello di renderci conto del meccanismo economico e sociale
operante in Italia e delle direttive da darsi ad un'azione economica capace di
contribuire a realizzare valori che ispirano il nostro pensiero.
A
questo fine è certamente più utile soffermarsi più a lungo su problemi di
particolare significato per l'identificazione dei criteri della nostra azione
futura, che non preoccuparsi di compilare un quadro sistematico dei problemi
economici e sociali che oggi presenta la società italiana; non pochi sono
quindi i problemi su cui non mi è dato soffermarmi in questa sede, ma che pure
hanno costruito oggetto di nostri studi accurati e su cui mi auguro possa al
più presto avviarsi un'azione di Governo: basti ricordare tra questi la riforma
delle società per azioni il cui attuale ordinamento non riflette certo il ruolo
che questo istituto svolge nell'economia contemporanea, la regolazione delle
posizioni monopolistiche nel nuovo quadro in cui il problema è stato posto
dall'instaurazione del Mercato Comune, lo sviluppo dei vari ordini di attività
assistenziali e delle complesse attrezzature che esse richiedono.
E'
però mia opinione che le considerazione pur brevi svolte intorno ai problemi
toccati sono ormai sufficienti per dare un quadro compiuto del sistema di
pensiero che ci guida e dell'applicazione che ci proponiamo di farne nella fase
attuale della vita italiana.
Punto
di partenza del nostro discorso è che oggi, rafforzate le basi del nostro
sistema economico, occorra, con una visione sotto molti riguardi nuova dei
compiti dello stato, dare opera affinché, garantite le condizioni
dell'ulteriore sviluppo, si ottenga che questo si svolga in modo da portare
rapidamente all'eliminazione degli squilibri esistenti nella vita italiana.
Caduti gli insuperabili ostacoli di fatto che fino ad epoca recente impedivano
di fissare in modo rigoroso un simile obiettivo unificante della società
italiana, noi oggi possiamo chiedere allo Stato di assumere anche una simile
responsabilità. Che cosa significa proporre una simile direttiva? L'argomento è
stato ampiamente discusso nel fecondo dibattito svoltosi nel settembre scorso a
S. Pellegrino. Io non riproporrò qui i termini di un problema sulla cui
soluzione vi fu senza dubbio, in quella occasione, una amplissima concordanza
di opinioni; solo vorrei portare a questa concordanza, raggiunta in sede di
studio, sul piano dei principi, un ulteriore appoggio sul piano dei fatti,
deducendolo dal tipo di iniziative che oggi si impongono nei vari settori se si
vuole che dette iniziative siano alla scala dei problemi da risolvere.
La
politica di piano
Ora,
le politiche di cui sono andato delineando i termini essenziali sono in genere
caratterizzate dal fatto di:
a)
essere strettamente collegate tra loro in quanto sono destinate a creare
condizioni complementari la cui presenza simultanea è necessaria per la
realizzazione di quell'ordine economico e sociale al quale noi tendiamo;
b)
richiedere metodi nuovi nell'azione che lo Stato svolge nel campo economico e
sociale;
c)
comportare una disponibilità rilevante di mezzi finanziari.
E
pertanto l'obiettivo generale di uno sviluppo economico equilibrante esige una
serie di azioni di vasta portata che si svolgono in campi diversi della vita nazionale
e ad opera di una molteplicità di istituzioni di carattere nazionale e di
carattere locale: tutte queste azioni non potrebbero dare il risultato che ci
si attende se non fossero tra loro strettamente coordinate, in altri termini,
se non si provvedesse a determinare in modo congiunto gli obiettivi parziali di
ciascuna di esse, gli strumenti da impiegare, i criteri con cui detti strumenti
saranno impiegati ed infine i metodi con cui raccogliere i mezzi finanziari
occorrenti. Tutto ciò ha trovato sintetica espressione a S. Pellegrino, sulla
base della relazione del prof. Saraceno, nell'espressione «politica di piano»;
altri chiama ciò «programmazione»: termini che stanno a significare la duplice
esigenza di coordinare strettamente le varie attività che si intende avviare, e
di adeguare le singole istituzioni e il volume di mezzi di cui sono dotate agli
obiettivi parziali che le istituzioni devono conseguire.
Se
concordiamo sui fini da raggiungere noi dovremmo anche concordare sul fatto che
questa linea rappresenta, nella fase attuale della vita italiana, una
evoluzione logica e necessaria; non possiamo infatti affermare che intendiamo
eliminare gli squilibri oggi esistenti, senza renderci conto nello stesso tempo
del tipo di responsabilità che l'azione pubblica viene con ciò ad assumere, dei
mezzi di cui quest'azione deve essere dotata ed infine delle forze che possono
sostenere l'azione stessa.
Si
è soliti osservare, a quest'ultimo riguardo, che una società non può, nel
sistema di rapporti esistente, dar luogo in modo autonomo ai processi di
innovamento che noi propugniamo, e ciò perché ogni processo evolutivo è
rallentato, deformato e alfine arrestato dalle forze che quel processo non
hanno interesse a consentire; certamente se all'interno della società è
possibile la libera manifestazione delle forze sociali che la compongono, un
simile rischio non può essere eliminato; noi ne siamo ben consapevoli. Siamo
però convinti che nel clima di libertà vigente nel nostro Paese le forze più
dinamiche, che meglio sanno esprimere in una data situazione storica i fini
della società, avranno sempre modo di raggrupparsi e di far prevalere gli
svolgimenti più conformi a quei fini.
La
D.C. e gli altri partiti: la lotta al comunismo
Dopo
il discorso sul programma viene, in modo del tutto coerente, quello sulle forze
politiche, anche se siano tali che se ne debba riconoscere la incompatibilità
con noi e l'impossibilità conseguente di collaborazione. Sotto questo profilo
vengono in evidenza le fondamentali preclusioni della D.C. nei confronti delle
forze totalitarie di sinistra e di destra, del P.C.I. e del M.S.I.
Tra
esse viene per primo in considerazione, per la temibile consistenza del suo
seguito popolare, per la serietà della sua ideologia, per la forza emotiva dei
suoi principi e programmi, per la solidarietà internazionale che lo presidia e
lo rafforza, per la pressione efficace che riesce ad esercitare sulla vita
democratica del Paese, il P.C.I., in atto la più potente delle forze contro le
quali urti la D.C. nell'assolvere il suo compito di garanzia democratica e di
difesa della libertà in Italia, il grande avversario della D.C. La
contrapposizione D.C.-comunismo resta senza mutamento alcuno, né di significato
né di intensità, sin da quando è intervenuta con De Gasperi la prima seria
chiarificazione nell'Italia democratica del dopoguerra, il dato fondamentale
della realtà politica italiana.
E'
una radicale diversità di programmi ed ideali, che non è in nulla intaccata
dalla natura popolare dei due partiti. La D.C. ha come meta suprema della vita
sociale l'uomo che è principio, fine e strumento della pur essenziale
solidarietà sociale, mentre il comunismo altera la gerarchia dei valori,
mortifica l'uomo, dissolve sostanzialmente la persona in una macchina collettiva
nella quale l'uguaglianza non è riconoscimento di eguale dignità, ma comporta
la rinuncia al valore autonomo della persona. La dignità della persona per la
D.C. richiede la libertà in tutte le sue forme e tra esse essenziale quella
politica; il valore dell'uomo invece per il comunismo si esprime e si esaurisce
in un inserimento mortificante ed uniforme nella vita collettiva. Per una leale
dignità da garantire la D.C. non fa pagare nessun prezzo in linea di principio
in termini di libertà; per una illusoria, il comunismo fa pagare invece il
prezzo ed, in talune circostanze storiche, un prezzo sanguinoso, della rinuncia
alla libertà umana. Contrapposte sono dunque le ideologie, i criteri morali, le
intuizioni sull'economia e la evoluzione della vita sociale. Contrapposte sono
le visioni di politica estera, ancorata quest'ultima per la D.C. all'autonomia
e libera valutazione degli interessi nazionali ed alla loro naturale e non
forzata connessione con quelli di altri popoli; pregiudizialmente vincolata
quella comunista, in forza di una dominante solidarietà classista, alle
posizioni dell'Unione Sovietica come Stato tutore degli interessi proletari in
tutto il mondo. Ma soprattutto ci divide dal Partito Comunista il fatto che
esso rifiuti la legge democratica del delinearsi delle maggioranze e delle
minoranze, dei loro inalienabili diritti, del loro alternarsi al potere, della
libertà di movimento del corpo sociale, del potere di scelta politica del
cittadino, della riversibilità di ogni decisione, dell'affidamento della
stabilità delle conquiste sociali e dei progressi civili e politici non ad una
impossibilità di mutamento, offensiva e cristallizzatrice, ma ad una sempre
rinnovata valutazione positiva e libera scelta del corpo sociale.
Sulla
base dell'accettazione di un metodo permanentemente valido di libera
discussione, nella garanzia comune di un'assoluta lealtà di rapporti si svolge
il gioco democratico. Ma il comunismo non accetta il gioco democratico. C'è per
esso un punto di arrivo, in termini di rigida eguaglianza e di disciplinato
inserimento dell'uomo nella società, che per il suo dominante valore consente
l'adozione di qualunque mezzo valga per giungervi, sicché la via democratica e
parlamentare è solo uno strumento tra altri giustificato dalla opportunità.
Dopo questo nessuna correzione è possibile e nessun ritorno. E', come si è
detto, la rivoluzione che è più grande e importante della verità e della
libertà o che s'identifica pregiudizialmente con esse. E' una irrimediabile
vocazione totalitaria, quale che sia l'interesse umano invocato, e talvolta con
accenti di sincerità e di passione e con notevole spirito di sacrificio, per
giustificarla. Su questo punto, su questa finalità ultima, su questa sorta di
diritto naturale sempre rivendicato dai comunisti alla violenza ed
all'oppressione per raggiungere il proprio fine di giusto ordinamento sociale,
esso stesso del resto oppressivo e soffocante, non vi è stata, non vi è, non vi
sarà mai, perché non vi può esservi nell'ambito del sistema, alcuna rinuncia,
riserva, attenuazione. Vi può essere un adattamento tattico, vi può essere
l'utilizzazione anche vivace ed appassionata di modi di vita democratica, ma
non il riconoscimento che i diritti dell'uomo, la libertà e la verità facciano
da limite insuperabile, perché indisponibile, all'affermarsi della rivoluzione
egualitaria del comunismo. Questa è per definizione la rivoluzione democratica
e socialista che è la ragion d'essere ineliminabile del Partito Comunista
Italiano.
L'on.
Togliatti chiede sì, nella relazione dell'ultimo Congresso del suo partito, che
si cerchi in Italia il modo di una reciproca comprensione «attraverso la quale
vengano trovate forme nuove, originali e nostre, di realizzazione di quel
progresso economico e sociale di cui il popolo italiano ha bisogno e cui
aspira» (e da qui la presenza e l'attiva partecipazione dei comunisti a tutte
le esperienze politiche della vita nazionale), ma senza che vi sia mai la
rinuncia agli obiettivi più lontani e più propri del P.C.I. Il rapporto che
passa, è ancora Togliatti che parla, tra le misure di riforma politica e
strutturale che noi proponiamo ed i nostri obiettivi più lontani è lo stesso
rapporto che si stabilisce nel mondo moderno tra la democrazia e socialismo...
Nazionalizzazioni, interventi dello Stato, estensione delle autonomie
politiche, maggiore benessere per i lavoratori, se non cambiano ancora la
natura del regime e della società, cambiano però qualche cosa «e possono
cambiare molto del mondo come si sviluppa la lotta delle masse lavoratrici per
conquistarsi un nuovo livello di benessere ed una nuova dignità... Però la
natura dell'ordinamento cambierà radicalmente solo quando saremo riusciti a
cambiare le classi dirigenti della società e dello Stato».
E
nella replica che conclude lo stesso Congresso, l'onorevole Togliatti precisa,
a proposito del quesito se le proposte comuniste siano da definire in senso
riformistico o rivoluzionario, che «il punto sul quale, oggi, noi comunisti
italiani poniamo l'accento, è che il rapporto tra riforme e rivoluzione non è
sempre stato il medesimo in tutti i periodi di sviluppo del capitalismo e in
tutte le fasi della lotta politica. Nella fase in cui si è aperta una crisi
rivoluzionaria, per arrivare alla trasformazione dello Stato, bisogna
abbatterlo; nelle fasi di sviluppo e di evoluzione, la riforma può avere modi e
contenuti diversi secondo le necessità esistenti e il grado di sviluppo della
società». Così la scelta tra rivoluzione e riforma è lasciata più alle cose che
agli uomini, mentre manca nella intuizione comunista del mondo una ragione
morale, poiché il solo criterio è la validità della rivoluzione violenta e
sovvertitrice.
Questa
irriducibile ambiguità, questa politica del doppio binario, questo mescolarsi
di obiettivi immediati e di altri remoti, questa insicurezza, a dir poco, circa
il punto ed il momento, i quali pur giungeranno fatalmente, nei quali la
convergenza temporanea diventerà divergenza in vista della attuazione
immancabile dei fini ultimi della rivoluzione comunista, non può non incidere
in modo decisivo su ogni prospettiva di collaborazione democratica con questo
partito. Direi che al di là della stessa volontà delle persone, per una ragione
obiettiva, per una fatalità storica, tutto è insincero, incredibile,
insuscettibile di creare vere e costruttive solidarietà nella azione politica
del comunismo: così le promesse ai diversi ceti sociali, la delineazione di
larghe maggioranze popolari per azioni rivendicative, la richiesta di comuni
posizioni distensive in politica estera, la creazione di piattaforme destinate,
attraverso una deformazione delle autentiche posizioni ideali non comunisti, ma
in definitiva ritenuti utili per le finalità remote del comunismo, la cauta ed
abile utilizzazione di correnti di opposizione che non hanno nulla a che fare
col comunismo, ma che ad esso fanno riferimento come ad una potente forza in
contrasto con quella che esercita il potere. E' ben difficile immaginare una
qualsiasi forma di collaborazione con i comunisti, che non sia almeno in
potenza, e con attitudine a tradursi in ogni momento in atto, una minaccia per
l'integrità del sistema democratico, per la normalità della vita politica, per
la stessa esistenza e il prestigio delle forze politiche le quali abbiano
incautamente accettato di entrare nel gioco comunista.
E
neppure l'autocritica alla quale hanno dato il via i risultati del XXII
Congresso del PCUS, a parte non irrilevanti riflessi psicologici e politici, ha
determinato e, noi sappiamo, può determinare il superamento di questa
ambiguità, una rettifica in senso veramente democratico che porterebbe il
comunismo fuori del sistema. E così Togliatti respinge la richiesta di
modifiche istituzionali e conferma che le istituzioni sovietiche sono il
risultato di un lungo processo storico che non può essere rifatto a ritroso: «È
assurdo contrapporre alle istituzioni sovietiche le istituzioni dello Stato
democratico borghese e credere che a questo si possa e si debba far ritorno. La
garanzia vera non sta tanto nelle forme istituzionali, quanto nella volontà democratica
delle masse popolari». E nel documento steso per orientare il dibattito di base
sui risultati del Congresso del PCUS si conferma che gli errori e le
deformazioni, per quanto gravi, non hanno compromesso e intaccato le basi e la
sostanza profondamente democratica della società socialista. La democrazia
socialista, si aggiunge, per le sue forme, per il suo contenuto e i suoi
obiettivi si differenzia profondamente dalla democrazia borghese. È il rifiuto,
del resto inevitabile, a dar rilievo ai problemi di libertà, di rispetto
dell'uomo, di controllo politico, di vera democrazia, in una parola, che sono
ancora una volta drammaticamente affiorati nelle rivelazioni e decisioni del
XXII Congresso del PCUS e che sussistono intatti, contro ogni ottimismo minimizzatore,
finché appunto non si metta in discussione il sistema.
Non
si può prendersela con l'avversario di classe e denunciare l'ennesima campagna
anticomunista ed antisovietica; non vale nemmeno rilevare, come un alibi, che
la democrazia socialista è quella, come si dice, borghese. Non si tratta di
diversità di forme e di contenuto, che nell'evoluzione sociale è ammissibile e
comprensibile; si tratta di vedere se in forme nuove ed in un contenuto diverso
e magari più ricco, siano salvaguardate esigenze permanenti, siano presenti
istituti nei quali si esprime in modo netto e sicuro la libertà e dignità umana
nella vita sociale e politica. Non è colpa nostra se vicende come queste
offrono lo spunto ad una polemica anticomunista che non ha bisogno di forzare
artificialmente i toni, per essere giustamente severa ed ammonitrice. Sicché a
ragione, nel mio ultimo discorso di Bari, potevo rilevare come «a qualificare
il comunismo nel suo reale significato in ordine ai valori umani... c'è la
polemica sulle vicende del regime comunista nell'Unione Sovietica, c'è la
scoperta della massiccia e continua violazione della legalità, c'è la
confessione della serie di delitti e di stragi della quale è intessuta la lotta
per la conquista e la conservazione personale del potere... Non sono in
discussione (notavo ancora) in questa drammatica denuncia, in questo esame di
coscienza, gli atti di violenza contro i nemici di classe, contro coloro che
non ha piegato la dialettica democratica, ma la cieca furia distruggitrice della
rivoluzione... È nel suo seno stesso che la rivoluzione riscontra in ritardo i
tragici effetti della esasperata lotta per il potere, il peso insopportabile
del chiuso regime personale, la fatale ingiustizia, la inevitabile offesa alla
libertà che un regime dittatoriale porta fatalmente con sé. Gli errori
attribuiti al culto della personalità, quasi si trattasse di una deviazione od
esasperazione del sistema, sono il portato fatale dell'accentramento del
potere, dell'impedito dibattito delle opinioni, del mancato controllo dal
basso, della unicità del partito, del rifiuto in ogni istanza del vero gioco
democratico. È un'impresa disperata... nell'atto in cui c'è un'ammissione, del
resto alla lunga inevitabile, della drammatica realtà dell'attuazione della ideologia
comunista, persuadere che si tratta di errori e colpe di uomini che lasciano
immune dalla critica il sistema. È un'impresa disperata, trattare queste
vicende, che del resto occupano un così lungo spazio dell'esperienza sovietica,
quasi si trattasse di fatti marginali e contraddittori che coprono il vero
volto del comunismo».
Questa
è la ragione, che ha oggi ancora più solido fondamento, della nostra
incompatibilità, che è propria del resto di tutti i partiti democratici, con il
comunismo. L'anticomunismo non è per noi, e non è per larga parte dell'opinione
pubblica italiana, una posizione assunta senza serie giustificazioni, con una
decisione pregiudiziale insensibile ad ogni onesta valutazione, una copertura
di comodo a posizioni d'interesse. È la conseguenza inevitabile della
identificazione del vero volto del comunismo. L'anticomunismo della D.C. non è
più come ho avuto già occasione di sottolineare, un anticomunismo di tipo
conservatore né sul terreno sociale né sul terreno politico. È un anticomunismo
che vuol dare alla giustizia sociale, alla rottura del fronte dei privilegi, al
processo d'immissione dei ceti popolari nella società e nello Stato il respiro
della libertà, lo strumento efficace di un'autentica esaltazione della dignità
umana. È un anticomunismo che sul piano politico, per quanto parta da una
chiara visione della realtà vera del comunismo, della sua irresistibile spinta
di fondo verso un sistema che irrigidisce la vita sociale e soffoca la libertà
in tutte le sue forme, non intende trasformarsi in regime né combattere la
battaglia per la libertà con mezzi che non siano quelli della libertà.
Per
i nostri principi, i quali chiedono una coerente applicazione, ma anche per
rendere la nostra opposizione al comunismo persuasiva, efficace, educativa, un
contributo positivo alla contrastata affermazione del sistema democratico, la
nostra posizione anticomunista dev'essere immune da ogni compiacenza o anche da
ogni sospetto di compiacenza verso il fascismo e tutto quello che lo renda
possibile e lo prepari. È necessaria perciò in una seria ed efficace posizione
anticomunista una spinta decisa verso un'espansione democratica in tutte le
direzioni ed a tutti i livelli, un lavoro di lunga lena, il quale non dà
risultati immediati e vistosi (i quali sarebbero per ciò stesso senza radici)
ma incide lentamente nelle coscienze, valorizza durevolmente determinati
fattori morali, religiosi e di costume, intacca una ingiusta e disordinata
realtà sociale sulla quale facilmente si impianta la protesta disperata,
disordinata ed eversiva. Né si deve trascurare in questa giusta rivendicazione
del solo modo serio di combattere il comunismo il fatto che esso, nella
continua mescolanza di obiettivi remoti, che lo allontanano o dovrebbero
allontanarlo dagli altri partiti, ed obiettivi immediati, che consentono un
facile inserimento del comunismo nella vita sociale e politica, mette in moto
energie operanti nella vita democratica, affronta problemi, eccita uomini e
gruppi, indica traguardi immediati che appaiono accettabili in talune
circostanze anche fuori della vera osservanza comunista, in una parola, pur con
finalità tattiche e menzognere, opera una mobilitazione democratica che non può
non lasciare una traccia nella vita sociale ed alla quale si risponde efficacemente
solo con un'autentica mobilitazione democratica con fini di verità e libertà e
senza alcuna riserva. Ci sia consentito perciò, proprio mentre riconfermiamo
l'anticomunismo della D.C., di essere scettici sulla validità delle critiche le
quali vengono rivolte con mentalità ancora chiusa e torpida a questo modo di
vedere i problemi sociali del nostro tempo e le esigenze di difesa democratica
come si manifestano in una società moderna. Non siamo, così, affatto persuasi
dell'efficacia dei metodi, non meglio precisati del resto, di resistenza
attiva, salvo s'intende la rigorosa applicazione della legge, una severa azione
amministrativa che non consenta privilegi per nessuno, una continua reazione
morale e politica. Un anticomunismo consapevole e fondato su basi democratiche,
quel è quello che noi pratichiamo, non può che postulare l'isolamento dei
comunisti, non può che volere che sia evitata ogni confusione ed ogni occasione
d'inserimento, di collegamento e di equivoco nei confronti del P.C.I.
Si
comprende bene quindi come i comunisti vogliano evitare l'isolamento e vogliono
esperienze frontiste. Ed invece questa dell'isolamento resta per i democratici,
resta per la D.C. una direttiva fondamentale di azione politica. Nessuna
confusione, nessun collegamento né visibile né invisibile, nessuna
collaborazione con il Partito Comunista. Questo è un primo dato della realtà
politica italiana.
La
minaccia totalitaria di destra
Come
c'è un limite a sinistra, in relazione alla difesa contro la pressione
totalitaria, così ve n'è uno a destra. La lotta su due fronti, l'individuazione
di una minaccia totalitaria anche sulla destra dello schieramento politico non
sono una novità, ma una costante nell'azione politica della D.C. da De Gasperi
in poi, un elemento caratterizzante da sempre della sua fisionomia di Partito.
E non si dica che questa esigenza è stata in passato sottovalutata e negletta
per una realistica valutazione della situazione politica, in forza della
capacità, che altri avevano nella D.C. ed oggi è perduta, di dare alle cose le
loro esatte proporzioni. Si può certo riconoscere che la disfatta del fascismo
fu tanto grave e, almeno in apparenza, così definitiva che per qualche tempo
parve impossibile immaginare questo come un pericolo attuale e la pregiudiziale
antifascista si presentò più che come un dato della realtà politica, come uno
stato d'animo, il consapevole ripudio di un passato doloroso ed avvilente che
contribuiva a tracciare i lineamenti ideali della D.C. Bisognerà aggiungere
pure che il riemergere di fermenti totalitari a destra fu lento, impacciato, e
si fece a poco a poco preciso, ostentato e minaccioso. Così solo negli ultimi
anni anche in sede amministrativa apparve più chiaro il tentativo del M.S.I.
d'inserirsi nella vita italiana con un preciso significato, con una pesante
carica polemica, con la pretesa d'incidere in modo determinante sulla
situazione politica e di correggere ed assimilare la D.C. Perciò la nostra
nettissima presa di posizione, che è giunta fino ad una totale preclusione
anche in sede amministrativa (una presa di posizione che non intendiamo né
rinnegare né attenuare e della quale anzi riconfermiamo intera la validità per
il passato e per l'avvenire) trova la sua immediata giustificazione proprio in
un certo deterioramento della situazione politica a destra, proprio nel venir
meno di alcuni margini, proprio nella pretesa, che parve vicina a realizzarsi,
del M.S.I. d'inserirsi nella maggioranza. Tuttavia essa è, anche se in passato
meno espressa, e meno polemica, una posizione di fondo della D.C., qualche cosa
che attiene alla natura del Partito e senza della quale il nostro non sarebbe
veramente un Partito democratico e di schietta ispirazione cristiana, un
Partito cioè tutto proteso a salvaguardare la dignità umana, votato alla causa
della libertà, capace di collocare le istanze collettive al loro giusto posto,
cioè non fuori dell'uomo ma nell'uomo, alieno dalla durezza, dall'estremismo, dall'odio,
dall'accettazione della violenza, dall'esaltazione parossistica del prestigio
della nazione, dall'irrigidimento dei rapporti internazionali. Queste invece
sono le componenti emotive, in tutte le latitudini, di una politica di destra,
della quale è altresì caratteristica un furioso, testardo, disperato
disconoscimento della realtà delle cose, dei dati nuovi della storia umana,
delle esigenze ormai infrenabili di dignità, di libertà, di giustizia, di
progresso e di pace. Queste sono, noi pensiamo, esigenze tutte cristiane e come
tali noi le facciamo nostre. In vista di questi obiettivi e sulla base di
queste aspirazioni noi non abbiamo mai incontrato né potremo mai incontrare
forze di destra.
Quale
che sia la buona fede altrui, riteniamo che non vi sia possibilità e ragione
d'incontro; che l'idea di una qualche assimilazione, di un qualche
avvicinamento della D.C. a forze di destra nasca da un equivoco sulla vera
natura del Partito e, quel che è più grave e pericoloso, dal disconoscimento
della realtà sociale e politica del nostro Paese e del mondo, dalla
incomprensione di questo momento storico le cui tumultuose ragioni di sviluppo
e di rinnovamento possono essere comprese e secondate solo sulla base di una
schietta ispirazione umana, democratica, popolare e precluse così all'influenza
deformante del totalitarismo comunista. Una intesa a destra toglierebbe alla
D.C., se non la volontà, almeno la possibilità obiettiva di valorizzare tutti
gli elementi utili allo scopo democratico del Paese, e di guidare con autorità
e mediante una efficace azione positiva il fronte della resistenza e della
lotta al comunismo. Una intesa a destra renderebbe impossibile al nostro
Partito di assolvere in modo persuasivo ed efficace la sua funzione di garanzia
democratica, e precluderebbe ad esso la prospettiva di essere, come è stato
finora, la fortunata alternativa democratica alla spirale fatale e rovinosa
della rivoluzione e della reazione, del comunismo e del fascismo. Questo è ciò
che comporta in effetti, anche se si creda di poter sfuggire a questa
involuzione politica con la buona fede, con la tensione ideale, con la garanzia
del programma, con abili accorgimenti; questo è il prezzo che si paga
disegnando con minor rigore che non sia necessario i confini a destra della Democrazia
Cristiana.
Ma
si dice che non esista in Italia una destra così configurata, così pericolosa,
così incisiva nella vita democratica del Paese. Ora, se noi certamente non
possiamo sottoscrivere l'opinione di chi vede in Italia provenire pericoli per
la libertà e le istituzioni solo da destra, se non possiamo non avere presente
l'enorme peso che il comunismo rappresenta in Italia, non siamo però disposti a
minimizzare i pericoli di destra per la vita democratica italiana. Crediamo
anzi, come abbiamo detto altra volta, che non ci si debba fermare, soprattutto
per una ragione morale e poi per doverosa prudenza in considerazione del mutare
delle situazioni e dell'incremento che danno obiettivamente l'uno all'altro gli
opposti estremisti, a misurare il peso che in concreto assume il pericolo
rappresentato dalla destra totalitaria in confronto a quello implicito nella
spinta rivoluzionaria del comunismo. I democratici cristiani hanno la stessa
ragione morale, la stessa ragione politica e quindi la stessa ripulsa e
resistenza da opporre di fronte a qualsiasi forza potenziale di sovversione dei
liberi ordinamenti dell'Italia democratica. Anzi, la nostra vigilanza e
resistenza hanno da essere maggiori, proprio perché l'entità di questo rischio
per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari ed è pur
vero che esso non risiede intero, pur nell'innegabile riferimento ideale e
storico che esso fa al fascismo, nel M.S.I. Sappiamo bene, e lo abbiamo già
rilevato, che la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale
della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla
giustizia che avanza fatalmente in una società democratica, là dove sono
angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà e non si crede
alla sua forza creativa, redentrice ed in definitiva ordinatrice e garante, là
dove si guardano in superficie le cose ed il cammino della storia, là dove ci
si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza. La
radice del male è nella vita sociale e nelle coscienze, nelle quali, come del
resto avviene per il comunismo, essa deve essere compresa ed estirpata su di un
piano ideale e con risorse morali. Se non si deve fare alleanza, non basta
certo il non fare alleanza a destra, ma di più occorre combattere la battaglia
della giustizia, dare autorità alle istituzioni democratiche, fare credito alla
libertà perché essa sappia compiere la sua grande opera di redenzione sociale e
di realizzazione di una fiduciosa convivenza.
Ma
esiste del resto in Italia una destra non solo come stato d'animo, ma anche
come reale dato politico. Ed anzi è da rilevare come le recenti consultazioni
elettorali, mentre hanno sensibilmente diminuito nel complesso le forze di
destra, hanno poi determinato una polarizzazione intorno al partito che con più
rabbioso livore ha contrastato la funzione democratica della D.C. ed ha assunto
e mantenuto con più rigore posizioni estremistici e su tutti i problemi della
vita nazionale.
Le
collaborazioni democratiche della D.C.
È
ben noto, e non occorre richiamarlo qui, il significato che ha assunto negli
scorsi anni la delimitazione dell'area democratica e la identificazione delle
forze politiche con le quali la D.C. potesse stabilire costruttivi rapporti e
condividere su basi di piena sicurezza democratica la responsabilità di
Governo. Le difficoltà sopravvenute grado a grado e che hanno ora il loro
momento culminante non autorizzano certo, almeno non autorizzano la D.C., a
svalutare nel loro costruttivo significato quelle collaborazioni, a sminuire i
compiti assunti ed i servizi resi in comune da quei partiti, a dimenticare i
punti di contatto, le comuni intuizioni, lo slancio e la passioni, con i quali
furono affrontate le difficoltà e delineati e perseguiti gli obiettivi della
ricostruzione dello Stato democratico, assicurata la difesa delle istituzioni,
configurata una linea solidaristica e democratica di politica estera. Non
abbiamo da ripudiare dunque, nel suo valore storico, questa esperienza per la
quale, aderendo, in rapporto ai tempi ed alle circostanze, ai bisogni del
Paese, si provvedeva al presente e si preparava nella serenità di una normale
vita democratica l'avvenire. Né possiamo disconoscere il significato di quella
delimitazione di un'area libera da ogni ipoteca totalitaria, che poneva un
netto confine a destra ed a sinistra di fronte a forze che si andavano facendo
più risolute e minacciose per la libertà del nostro Paese. Ed in particolare
veniva così esplicata un'efficace funzione di differenziazione, di polemica, di
monito, ma con significato del tutto costruttivo, verso sinistra, poiché
proprio sul lato più esposto dell'area democratica, la socialdemocrazia
assumeva una vitale posizione di difesa della democrazia italiana ed esprimeva,
proprio per la sua dolorosa lacerazione, una denuncia della pericolosità del
frontismo ed un avvertimento severo contro ogni confusione. Il fatto che questa
rigida chiusura si sia allentata, nei confronti, s'intende, del Partito
Socialista, quando la lenta e faticosa evoluzione di quel partito nel complesso
movimento della realtà politica italiana ha consentito di dare su quel punto
importante un giudizio meno drastico che per il passato, dimostra come quella
chiusura e netta differenziazione fossero in quel momento giustificate e non
pregiudiziali e faziose, come esse rispondessero ad una visione responsabile
del momento politico e dei rischi incombenti sulla democrazia italiana. Anzi si
può ritenere, senza togliere merito alla presa di coscienza dei problemi
storici italiani da parte del socialismo ed alle personali assunzioni di
responsabilità che hanno spianato la strada alla progressiva affermazione
dell'autonomia socialista, che proprio quella differenziazione, invece che la
confusione, proprio la delimitazione e non l'irresponsabile apertura dell'area
democratica, hanno avuto la loro importanza in quella evoluzione che consente
di porre oggi in termini più sereni e costruttivi il problema del rapporto tra
i partiti democratici ed il Partito Socialista.
Così
pure il fatto che si siano ritrovati in questa area in lunga e costruttiva
collaborazione partiti diversi, tutti di sicura tradizione democratica, ma
ciascuno con un proprio significato nella realtà sociale e politica italiana,
il fatto che nelle tradizionali coalizioni di Governo si siano incontrati
partiti di netta ispirazione cristiana e di altrettanto netta ispirazione
laica, tutto questo, in un periodo difficile eppur fecondo della storia della
nuova Italia democratica, è servito a realizzare la confluenza di diversi
ideali politici, ha posto a confronto diverse esperienze, ha avvicinato persino
diverse visioni del mondo sul terreno della vita democratica, che ne è
risultata consolidata ed arricchita. Il valore della collaborazione,
dell'unione nella diversità, della ricerca sul terreno politico di occasioni di
utile incontro tra partiti diversi, insieme senza presunzione e senza rinuncia,
è infatti un dato acquisito che scaturisce appunto da quell'utile esperienza
storica.
Questa
collaborazione richiesta dalle circostanze, risponde ad una particolare
rigidezza della situazione e degli schieramenti politici sospinta da obiettivi
immediati ed essenziali da perseguire, ha reso necessarie ad insieme possibili
rinunce programmatiche ed attenuazioni sensibili delle differenze peculiari dei
partiti tradizionali coalizioni centriste. Questa volonterosa rinuncia a
posizioni più proprie e più chiuse, però, che era stata possibile per un lungo
periodo, si è venuta progressivamente attenuando ed infine esaurendo. L'importanza
degli obiettivi particolari, la preminenza delle ragioni di divisione sulle
ragioni di unità si sono andate grado a grado affermando con il venir meno di
quelle ragioni di solidarietà che nascevano dalla particolare situazione
politica e cioè con il progredire nella costruzione dello Stato democratico e
con la soddisfazione delle esigenze fondamentali della comunità
nazionale.
Tutto
ciò per un verso faceva apparire come non più necessaria una così stretta
intesa difensiva tra i partiti e per l'altro andava mettendo in luce, con il
significato delle posizioni e delle caratterizzazioni particolari, il vantaggio
che proprio con l'assolvimento di peculiari funzioni, con il sottolineare e
valorizzare le differenze si poteva trarre ai fini di un migliore assetto della
vita democratica. Si auspicava così un più celere ritmo di sviluppo della vita
economica e sociale, per incidere con maggiore efficacia in un ambito di forze
ed in settori di opinione restati fino allora lontani e diffidenti di fronte
alle istituzioni democratiche. La storia di questi anni è in larga parte la
storia della progressiva accentuazione delle differenziazioni programmatiche e
della dichiarata e sottolineata diversità di funzione dei partiti, fino al
profilarsi di una vera incompatibilità tra le ali sinistra e destra dello
schieramento democratico tradizionale. N'è derivata l'affermazione della non
utilità e quindi inammissibilità di una collaborazione che impegni il partito
socialdemocratico e quello repubblicano da un lato, e quello liberale
dall'altro.
Credo
che ormai appaia chiaro a tutti che si tratta di un fatto politico serio,
meditato e stabile, legato non ad una momentanea infatuazione, ma ad una
valutazione della natura dei problemi e dell'entità dei rischi che incombono
sulla democrazia italiana.
Credo
che mancheremmo al doveroso rispetto della verità, oltre che di partiti che
hanno così alta tradizione e coscienza democratica, se sminuissimo questo stato
d'animo fino a farne un piccolo gioco opportunistico; se non attribuissimo, per
quanto rilievo possano avere i problemi politici cosa proposti dai partiti
democratici di centro-sinistra, a questa posizione il significato di una vera
tensione ideale, di un serio sforzo rivolto a mettere in crisi il sistema della
pressione totalitaria di sinistra sulla vita democratica in Italia, a
sciogliere i nodi di problemi insoluti di organizzazione dello Stato e di
sviluppo economico e sociale avendo di mira la sicurezza della democrazia
italiana.
La
D.C., la quale, per essere il perno della vita democratica, ha da essere
attenta ad ogni movimento della realtà politica e pronta a contribuire ad ogni
utile sviluppo, non può che prendere atto di questa realtà e tenerne conto ai
fini della sua azione. Deve farlo, nella sua obiettività e responsabilità,
anche se essa possa essersi trovata a grave disagio nell'assolvere il suo
compito di garanzia democratica, senza avere né forze sufficienti né appoggi
adeguati.
Il
P.S.I.
Abbiamo
lasciato per ultimo il riferimento al P.S.I., perché esso costituisce il
maggior problema ed oggetto di obbligata discussione in ordine agli sviluppi
della situazione politica ed a possibili nuovi assetti della democrazia
italiana. Non è per un atto di compiacenza o per un artificio, che si discute
tanto del Partito Socialista, dentro e fuori della D.C. Si tratta di ben altro
che non la nostra più o meno innocente mania o il frutto di un abile gioco
diretto a suggestionare la coscienza pubblica. In realtà si parla o non si può
non parlare del P.S.I., come di un riserva alla quale attingere, se vi si può
attingere, per una più solida garanzia, un più completo sviluppo, la creazione
di un più stabile equilibrio in seno alla democrazia italiana. Si potrà avere,
com'è per molti e certo in buona fede, e certo nel sincero desiderio di meglio
salvaguardare appunto la democrazia italiana si potrà avere, dicevo, una
posizione fortemente polemica ed irrimediabilmente pessimistica circa la
prospettiva di utilizzare davvero senza rischi ed anzi con vantaggio il P.S.I.
per la guida politica del Paese e per la difesa delle istituzioni, ma non si
potrà negare che l'unica direzione nella quale si possa guardare, anche senza
abbandonarsi ad un facile ottimismo, è quella rappresentata dai settori di
opinione pubblica, dal complesso delle forze degli interessi e degli ideali che
fanno capo al Partito Socialista. Ciò non significa naturalmente che in tal
modo si intenda restringere sostanzialmente l'area democratica alla quale si
vuole dare invece maggior respiro, concentrare in modo eccessivo ed in una sola
direzione interesse e speranza. Tanto meno questo interessamento significa una
sorta di rinunzia per una radicale sfiducia, ai nostri ideali e programmi, o il
riconoscimento del fallimento storico dei partiti, ed in prima linea della D.C.,
che hanno guidato in questi anni il Paese e salvato la democrazia in Italia; o
una loro incapacità di rinnovata presenza e di ulteriore espansione nel corpo
elettorale. E tuttavia, malgrado questo, vi sono fatti indiscutibili che danno
ragione dell'interesse diffuso per il P.S.I., della indubbia rilevanza di quel
partito per la vita e l'avvenire della democrazia italiana.
Tra
essi è la evidente inutilizzabilità di una destra retriva, diffidente del
nuovo, minacciosa, spinta costantemente ad assumere posizioni estreme ed
involutive; la ristrettezza, progressivamente accentuata, dell'area
democratica; le interne sue fratture alle quali sembra non possa essere posto
rimedio più che per volontà di uomini per forze delle cose; i mutamenti
interessanti e ricchi di problemi delle strutture sociali; la ineguale
distribuzione delle forze politiche nelle varie zone del Paese che, mentre è
significativa ed ammonitrice, propone anche problemi immediati e gravi circa
una presenza coerente e diffusa della guida politica del Paese; l'evidente
necessità infine di non precludere, se non per ragioni di inderogabile difesa
democratica, l'assunzione di sempre maggiori responsabilità politiche di vasti
e qualificati settori del corpo sociale. In questo senso credo che si sia giustamente
parlato di un problema storico, il che vuol dire, prima che indicazione di un
dato importante, ma che si può essere costretti a collocare per forza di cose
in una prospettiva lontana, in uno sviluppo a largo raggio di eventi,
soprattutto che si tratta non di un fatto marginale ma centrale, di un problema
che tocca l'essenza e le grandi linee di sviluppo della democrazia italiana. Il
che vuol dire che intorno a queste cose, a questi problemi, a queste esigenze
occorrono un'attenzione seria, una profonda consapevolezza, un senso teso e
vigile di responsabilità in vista di tutto quello che può arricchire e
consolidare, o invece fare intristire e lasciare debole ed indifesa, la
democrazia italiana. Riconoscere l'importanza del tema, avere presenti le prospettive
che si aprono in una direzione o nell'altra in rapporto agli sviluppi della
situazione politica, significa appunto eccitare il senso di responsabilità, non
abbandonarsi perciò ad un facile ottimismo, ma neppure soffermarsi in
un'estatica e preoccupata contemplazione di difficoltà e remore che appaiono
insuperabili. Questo senso di responsabilità si riflette da un lato nella
visione nitida e lontana delle ragioni che sospingono nella direzione
dell'allargamento, come si dice, dell'area democratica, dall'altra nella
valutazione seria ed equilibrata dei rischi che l'operazione comporta, della
gradualità che si deve adottare, dei modi, i più cauti, secondo i quali essa
può essere proposta, dei prezzi che possono essere pagati, ma anche degli
insuperabili ostacoli che possano condurre ad una rinunzia, per tener fede a
valori, personali e sociali, essi sì veramente irrinunciabili. Un senso di
responsabilità perciò che impedisce di acquietarsi di fronte alle prime ed
anche alle seconde difficoltà, che conduce ad intendere a fondo il viluppo
degli interessi e dei contrasti tra i quali si deve poter fare strada, grado a
grado, faticosamente, la verità, che ammonisce a non negare in fatto, con una
richiesta globale e massimalistica, ogni agevolazione che possa essere offerta,
senza certo concessioni inammissibili, al difficile emergere di una nuova
realtà storica. Nella misura in cui il problema di una difesa, su basi avanzate
e di movimento, della democrazia italiana è il problema dell'atteggiamento,
della disponibilità effettiva del P.S.I., della coraggiosa assunzione di tutte
le responsabilità da parte di quel partito, esso è anche il problema della
responsabilità dei democratici, della loro capacità di avere quella visione
nitida e lontana di cui prima si diceva, di praticare tutta la prudenza idonea
a non compromettere, nello sforzo pur generoso, nessuno dei valori essenziali
nell'ordine morale e politico, ma anche della loro prontezza nel non chiudersi
essi pure in uno sterile massimalismo, per consentire che le cose camminino, se
possono, con i tempi, i modi, la preparazione, la gradualità che sono proprie
non di esplosive ed effimere improvvisazioni, ma dall'andamento serio e
sofferto dei grandi mutamenti della storia.
L'autonomia
del P.S.I. dal P.C.I.
In
tanta parte il problema dell'autonomia, della iniziativa, della assunzione di
responsabilità democratiche del Partito Socialista è riposto nella definizione,
non astratta ma in sede storica, dei rapporti di quel partito con il Partito
Comunista da un lato, con i partiti democratici, ed in prima linea con la D.C.,
dall'altro. Ora, qual'è a questo proposito la posizione socialista come si è
andata svolgendo in questi due anni che ci separano dal Congresso di Firenze?
Che cosa è cambiato in questo tempo per noi e per loro? A Firenze noi
affermammo la nostra rispettosa attenzione per quanto avveniva all'interno del
P.S.I., sottolineammo il nostro doveroso impegno per non respingerlo su
posizioni frontiste, ma indicammo anche, come espressione di indeclinabile
responsabilità di fronte al Paese e come contributo allo stesso dialogo con i
socialisti, le perplessità nascenti dai permanenti legami tra comunisti e
socialisti al livello degli enti locali e dei sindacati, dalle caratterizzate
posizioni socialiste in politica estera oltre che dalla accentuata dialettica
interna di quel partito. In un bilancio globale noi esprimevamo esigenze ed
aprivamo insieme prospettive in relazione ad una evoluzione che avrebbe avuto
come protagonista il P.S.I. (e noi con esso, perché si influenza solo in
qualche modo ed in qualche misura cooperando), guardando non solo al travaglio
interno di quel partito, ma anche alla reazione significativa dei socialisti ai
fatti interni ed internazionali: le crisi di Governo, le elezioni amministrative,
i problemi delle giunte, i rapporti Est-Ovest dopo il vertice di Parigi, il
drammatico caso di Berlino, la ripresa degli esperimenti nucleari da parte
sovietica, la rinnovata critica comunista in senso antistaliniano. Non è certo
possibile in questo momento analizzare partitamente gli atteggiamenti del
Partito Socialista di fronte ad un così complesso svolgimento storico. Basterà
osservare che è ravvisabile però lo sforzo di dare per ogni situazione una
interpretazione socialista e di definire per essa una autonoma posizione
socialista; ma non mancano incertezze, ritorni, situazioni di lacerazione
interna, rassegnata accettazione, specie in sede parlamentare, di talune
situazioni di uniformità (come nel recente dibattito sull'aeroporto di Fiumicino),
evidenti manifestazioni d'incapacità a condurre a fondo con assoluto rigore
posizioni, onestamente affermate, di piena autonomia politica. Ma più
significativamente si può seguire l'evoluzione del Partito Socialista
attraverso il dibattito che si è sviluppato con una notevole intensità negli
ultimi due anni, ad iniziativa della maggioranza, su ciò che fa diversi i
socialisti dai comunisti, dal quale deriva l'atteggiamento pratico di fronte a
quel partito e conseguentemente di fronte ai partiti democratici.
Nella
riunione del Comitato Centrale del novembre-dicembre '60, nella quale si
esaminavano i risultati delle elezioni amministrative, l'on. Nenni non mancò
d'individuare una delle cause del mancato avanzamento del P.S.I. nell'attacco
dei comunisti e quindi di ricavarne come ammaestramento per l'azione l'esigenza
di un approfondimento alla base del partito di ciò che fa diversi i comunisti
dai socialisti. Si individua così nettamente una radicale diversità nel modo di
intendere il senso della conquista, dell'esercizio, della finalizzazione del
potere, che viene caratterizzato per i socialisti alla stregua di una assoluta
esigenza di rispetto della libertà umana in tutte le sue forme. L'insistenza
dei socialisti, che ai superficiali può apparire monotona ed opportunistica,
nel sottolineare ciò che fa diversi socialisti e comunisti, sta ad indicare che
il valore assoluto e permanente della libertà, mai assente nel socialismo
italiano, viene da esso anche se in modo lento e contraddittorio dal vertice
alla base ed al corpo elettorale. Lo conferma l'on. Nenni quando, nella sua
conferenza di Londra, afferma che «un posto importante tra i nuovi fattori è
rappresentato dalla sempre più chiara coscienza della responsabilità
democratica del P.S.I.». Tenendo presente questa polemica differenziatrice, va
considerata la linea della maggioranza del P.S.I. dai vari Comitati Centrali
fino al XXXIV Congresso. Essa parte da una valutazione di fatto dietro la quale
peraltro, nella stessa maggioranza, non si trovano sempre uguali posizioni di
principio che sono poi quelle decisive e destinate a dare solide garanzie a
tutti i democratici italiani. La valutazione di fatto è che, di fronte alle
esigenze di rinnovamento della società italiana, il tentativo di darvi risposta
mediante l'allineamento del P.C.I. e del P.S.I. è fallito sul piano
dell'esperienza. Infatti, dirà Lombardi nella riunione del Comitato Centrale
del novembre '59 che «i lavoratori hanno dato forza ai partiti di classe, ma
non la maggioranza assoluta, dimostrando sensibilità per i problemi della
libertà, ritenuti evidentemente non coperti da una sufficiente garanzia in
forza della presenza del P.C.I.». Da questo dato di fatto deriva la necessità
per il P.S.I., per poter essere in qualche modo protagonista dello sviluppo
democratico del Paese, di una posizione autonoma, per concorrere con le forze
della sinistra laica e cattolica (ma in realtà non vi si concorre se non
collaborando con tutta la D.C.) a promuovere, intorno ad un chiaro e
significativo contenuto programmatico, il rinnovamento della società. Ora, c'è
da chiederci se l'alleanza politica col P.C.I. viene scartata perché, in forza
della reazione che genera nella classi intermedie e nei ceti rurali, non
consente di fatto di conquistare il potere o invece per le ragioni di principio
che fanno diversi i socialisti dai comunisti e per i rischi che questa
diversità comporta per la democrazia italiana e per lo stesso P.S.I. Quando
l'on. Lombardi, forse accentuando per esigenze di dialettica interna, afferma
il proprio acomunismo, si limita in fondo a rilevare la inefficacia di quella
alleanza. Quando ci si ferma alla constatazione che nell'Europa occidentale è
difficilmente destinata al successo una posizione che si fondi su di una linea
comune socialista e comunista nella quale però prevalga l'influenza comunista
per la forza preponderante di quel Partito e per i suoi legami di carattere
internazionale, si può valutare quanto manchi ancora di chiarezza e decisione
una piena politica autonomistica di netta differenziazione dai comunisti. Si
possono così spiegare i silenzi, anche del Congresso di Milano, sul problema
costituito da alcune forme particolarmente allarmanti, dei rapporti di fatto
con i comunisti e, tra l'altro la pregiudiziale decisione di tener ferme tutte
le posizioni amministrative di potere comuni dei due partiti. Il che viene
rilevato, se non in ordine ad alcune prospettive limitate che possono affiorare
nella presente realtà politica, per continuare, contro ogni equivoco, una non
inutile ed anzi doverosa polemica che non è rivolta certo, come abbiamo detto
altra volta, ad imborghesire il P.S.I., ad impoverire la sua carica critica e
di rinnovamento sociale, ad allinearlo su posizioni di anticomunismo ottuso,
chiuso, conservatore, ma a sollecitarlo a trarre le conseguenze da quello che
fa diversi socialisti e comunisti e non può rimanere senza riflesso nei
rapporti tra i due partiti ed, alla lunga, nella impostazione politica
generale. Una volta fissato il principio della netta diversità, sulla quale riposa
la differenziazione dei due partiti e che neppure l'autocritica di comodo
dell'epoca poststaliniana può cancellare, non si vede come ci si possa
sottrarre all'esigenza di trarne tutte le logiche conseguenze, che vengono
invece eluse da una certa ambiguità di linguaggio ed in pratica da una
politica, vorremmo dire, di rischio calcolato nei rapporti tra i due partiti,
contribuendo a rendere tortuosa e tormentata l'azione pratica del Partito
Socialista ed a porre remore ad una decisa svolta a sinistra della situazione
politica nazionale. Nella sinistra socialista poi il rischio dell'allineamento
con i comunisti non è deliberatamente calcolato. Nell'approfondimento della
diversità ed opposizione tra comunisti e socialisti, nella chiara visione dei
pericoli che corre in una situazione di equivoco e di radicalizzazione della
lotta politica la democrazia italiana, l'on. Nenni, pur con il limite di una
complessa situazione politica da sostenere e della sua ideologia, sembra andare
più lontano. Come quando, nella sua relazione al Congresso di Milano rileva che
«il filo conduttore che indirizza in maniera diversa le reciproche prospettive
dei comunisti e nostre, ci fa respingere come incompatibile con il socialismo
ogni dittatura di partito, ci fa ravvisare il nucleo centrale e la sostanza del
socialismo nella libertà concreta dell'uomo, che comporta, insieme con
l'abolizione della proprietà capitalistica e la socializzazione dei mezzi di
produzione, anche l'espressione piena dei diritti individuali di libertà e della
vita democratica delle masse... Questo, e assieme la diversa collocazione
internazionale dei due partiti, esclude la possibilità di una alleanza generale
politica o di una comune lotta per il potere...».
Ed
ancora dall'on. Nenni, nella stessa sede, una politica democratica qual è
quella perseguita dai socialisti viene definita «diversa da quella comunista,
perché non strumentale; valida quando i socialisti sono all'opposizione e
quando saranno alla direzione della società e dello Stato; non gravata da ipoteche
e dittature di partito; fondata sui diritti di libertà che noi consideriamo una
acquisizione permanente della civiltà».
È
una prospettiva che attende nella difficile situazione italiana, dove sono
grandi punti interrogativi e scadenze serie ed urgenti, un processo di
conseguente attuazione, che non comporta l'imprigionamento del P.S.I. in una
qualsiasi maggioranza di comodo o la deformazione delle linee essenziali e
della funzione del partito, il che tra l'altro non gioverebbe alla democrazia
italiana, ma il superamento dell'influenza pressante (e del sospetto di essa)
da parte del P.C.I., per rendere il P.S.I. nella sua integra fisionomia,
totalmente disponibile al servizio della democrazia italiana.
Ma
questo è il discorso di domani, non di oggi; il discorso di quella alleanza
politica organica, di quel reale collegamento, di quella appartenenza ad una
comune maggioranza che il Congresso di Milano esclude, come l'esclude allo
stato delle cose la D.C. nella constatazione della rigida impostazione classista
del P.S.I., del suo tormentato processo di effettivo, totale distacco dal
P.C.I., dell'inevitabile peso di talune radici comuni tra i due partiti, della
prospettiva di politica estera. Questa concezione, se stacca quel partito da
ogni pregiudiziale adesione al blocco sovietico e depreca la politica di
potenza da chiunque sia praticata, risente ancora troppo di una impostazione
generale neutralistica, cioè di una posizione che, rifiutando una scelta tra
una politica di libertà ma non di classe ed una politica di classe ma non di
libertà, rende il P.S.I. fatalmente esitante ed impacciato in una situazione
concreta che richiede spesso decisioni e fermezza anche psicologica, e lo
costringe a coprire questa irrisolutezza con una polemica per una interpretazione
difensiva del Patto Atlantico, il quale ha i suoi limiti che non possono essere
superati né per eccesso né per difetto, e contro posizioni, come si dice,
oltranziste le quali non sembra abbiano un peso determinante nello schieramento
occidentale e sono soprattutto ignote e naturalmente ignote all'Italia.
Le
vicende del socialismo italiano in questi due anni stanno ad indicare, accanto
ad innegabili progressi nella assunzione di responsabilità democratiche, il
perdurare di ombre notevoli per quanto riguarda un chiaro e responsabile
atteggiamento pratico da assumere di fronte al comunismo. È evidente che non si
tratta in molti tanto di cattiva volontà, quanto di obiettive difficoltà
derivanti dal perdurare di situazioni e caratteristiche legate all'origine
stessa del socialismo italiano ed accentuate a volta dalle stesse condizioni
politiche nelle quali il socialismo si è andato e si va sviluppando. Tali
difficoltà costituiscono innegabilmente un problema che riguarda innanzitutto
il Partito Socialista, ma al quale non possono rimanere indifferenti le forze democratiche,
senza in qualche modo compromettere la libertà del Paese. Da qui il loro
linguaggio il quale, pur non tacendo su quel che non può essere accettato, non
distrugge ma costruisce, è un linguaggio cioè di fiducia e di speranza. Da qui
la loro prudente disposizione a secondare quelle esperienze che, senza rischio
per le istituzioni e con vantaggio della democrazia, possano offrire ai
socialisti un'occasione, una prova, una facilitazione per la conquista della
loro piena autonomia.
II
dovere di governare della D.C.
Non
si può certo affrontare il problema della crisi politica, ormai in atto, se non
si parte dalla considerazione che ci è accaduto di fare molte volte nel corso
di questi anni circa il dovere di Governo che incombe sulla D.C. Esso non scaturisce
da una sorta d'investitura che alla D.C. derivi per una ragione propria e
diversa dall'unico titolo che ha validità in regime democratico e cioè il
consenso popolare, che alla D.C. è venuto e ritornato nelle più diverse
circostanze e situazioni politiche, sempre consacrando come guida naturale,
anche se noi esclusiva, del Paese un Partito di popolo che interpreta e
soddisfa in termini di libertà le aspirazioni delle masse e di vari e vasti
ceti del corpo sociale. La ragione del suo compito e del suo dovere non viene
dunque dal di fuori e dall'alto, ma dal basso, dalla coscienza pubblica e dalla
volontà popolare. Non è una comodità, ma una responsabilità ed un peso. È un
principio di presenza, di una costante presenza che non ammette né riposi né ritiri
né ripensamenti. È un dovere ed un problema, perché, mentre questa situazione
propone l'inderogabile esigenza di provvedere al Governo del Paese, impone una
tensione fino all'estremo limite per la ricerca la più attenta e responsabile
delle condizioni nelle quali quel compito possa essere assolto, quel dovere
adempiuto nel mondo più costruttivo e più utile nell'interesse del Paese. Il
richiamo al dovere di governare non può essere assunto come un'apertura a
qualunquistiche facilità, quasi che esso abbia in se stesso, in qualsiasi
circostanza, la propria giustificazione.
Non
è certo qualunquista e facilmente accomodante la nostra ansia di tutti questi
anni, nelle condizioni più difficili ed ingrate, in cercare di adottare di
volta in volta le soluzioni migliori che la realtà politica e parlamentare
consentiva e soprattutto per non snaturare la D.C. e non sacrificare nella
soddisfazione delle pressanti esigenze del presente le riserve che il Partito
ha in sé per il domani e le stesse prospettive avvenire della democrazia
italiana. Non ci siamo dunque mai collocati in una posizione di abbandono e di
rinunzia. La verità è che, mentre non abbiamo mai considerato possibile
l'esercizio del potere a qualunque costo, l'esercizio del potere per il potere,
e non abbiamo mai lasciato deformare il volto della D.C. e mai trascurato,
anche a costo della instabilità governativa, di cercare sempre soluzioni nuove,
se non perfette, certo più adeguate, ci siamo trovati però e possiamo trovarci
anche in avvenire in situazioni nelle quali, una volta salve le cose
essenziali, si sia costretti a prendere non l'ottimo, che in quella situazione
è inattingibile, ma il buono o anche il mediocre, per cercare di migliorarlo,
valorizzarlo, per così dire ravvivarlo con la nostra fede. La verità è che non
siamo tutto, che dipendiamo in qualche misura dalla volontà altrui che ci
condiziona, che non sempre la volontà di collaborare risponde alla obiettività
idoneità in tal senso e che una siffatta obiettiva idoneità incontra limiti e
riserve di carattere soggettivo che appaiono talvolta insuperabili.
Stabilire
che cosa sia il meglio è un compito arduo, che si assolve alla luce dei
principi che un Congresso afferma, delle direttive di fondo che esso traccia,
ma che impegna pesantemente, angosciosamente coloro sui quali ricade appunto la
responsabilità della decisione. Intorno a queste grandi indicazioni, ai modi di
affrancarci il più possibile dai limiti e dai condizionamenti che la situazione
presenta, è impegnato oggi il dibattito congressuale come sarà domani impegnato
nelle scelte concrete quello che prenderà vita da questo Congresso per condurne
ad attuazione le conclusioni.
La
formula centrista
Così
vi sono state certamente molte critiche, e noi le ricordiamo bene, da destra e
da sinistra, prima da destra e poi prevalentemente da sinistra, alla politica
del centro democratico, che era espressione di una lotta intransigente su due
fronti contro tutte le minacce totalitarie e l'utilizzazione di una seria
solidarietà tra diversi partiti democratici, per assicurare la difesa della
libertà e lo sviluppo sociale. In quella situazione la D.C., pur accentuando la
sua spinta popolare, pur sottolineando il peso di certe rinunce programmatiche,
pur timorosa che una visione eccessivamente statica dell'equilibrio bilanciato
dei Governi quadripartiti e tripartiti potesse in qualche modo limitare, anche
psicologicamente, la sua funzione di interprete larghissima di esigenze
popolari, ha lungamente accettato come soluzione adeguata ai problemi politici
italiani una formula come quella centrista, giustificata. in vista di una
preminente esigenza di difesa democratica. Così la critica interna, finché
qualche cosa non è mutato nella realtà politica italiana, fino a che questo
mutamento non ha avuto anche un preciso riscontro nelle valutazioni degli altri
partiti con noi impegnati nel Governo del Paese, non è stata sufficiente a
modificare quell'apprezzamento sostanzialmente positivo ed ottimistico che si è
espresso, tra l'altro, nei Congressi di Napoli e di Trento. Ma quando qualche
cosa è parsa cambiare nella realtà sociale e politica italiana, quando quella
esigenza di difesa chiusa ed intransigente di fronte ad un socialismo
abbarbicato su posizioni comuniste è apparsa meno urgente di fronte alla evoluzione
faticosa del socialismo verso la sua autonomia, quando alla difesa immobile è
sembrato si sostituisse una difesa aperta ed elastica (quella dell'allargamento
cioè dell'area democratica), quando il peso delle differenze si è fatto
maggiore e maggiore la difficoltà di eliderle in nome di una necessaria
solidarietà, allora è incominciata la crisi di quella politica che durava da
anni, crisi che ha oggi il sui momento culminante che impone alla D.C. di
prenderne atto.
La
crisi della formula centrista
Non
c'è da stupirsi che i sintomi di questa crisi siano apparsi più evidenti ed
incisivi nei partiti della sinistra laica, i quali per la loro posizione e
funzione sono naturalmente destinati a ricevere per primi i riflessi e direi le
esigenze della iniziativa politica di autonomia del P.S.I. Da qui la loro
decisine, che non è oggi, di considerare definitivamente chiusa l'esperienza
delle collaborazioni nell'area democratica tradizionale di ritenersi
disponibili per ulteriori collaborazioni con la D.C. solo in base a formule
nuove che comportino un sia pur cauto e limitato allargamento a sinistra
dell'area democratica. Si è spesso ripetuto polemicamente che una siffatta
decisione sarebbe più frutto d'incertezze e di sbandamenti della D.C., del
venir meno nel nostro Partito di una linea netta ed intransigente in senso
centrista che non di una autonoma e veramente convinta valutazione di questi
due partiti. Io ritengo invece che la D.C. nelle sue posizioni di maggioranza,
sotto il peso di preminenti responsabilità di Governo e di garanzia democratica
del Pese, abbia tenuto ferma la linea del centrismo classico fino ai limiti
estremi delle sue possibilità. Ma la maturata valutazione e la fermezza dei due
partiti di sinistra democratica non possono essere messe in discussione. Il
modo come è stata accettata e vissuta la convergenza, che pur poté sembrare a
taluno il principio di un'autocritica ed un ritorno mascherato verso le vecchie
posizioni, la sua carica polemica quotidiana, la resistenza tenace a qualsiasi
tentativo di dare alla formula una dignità formale ed un accreditamento dinanzi
al corpo elettorale, stanno a dimostrare che il superamento del centrismo, la
ricerca di vie nuove erano per questi partiti cose serie e stabili. Credo che
sarebbe stato e sarebbe da parte nostra, oltre che irriguardoso, inefficace il
tentativo di modificare unilateralmente questa posizione, la quale semmai
potrebbe cambiare in forza di un ripensamento che sia provocato dalla
constatazione dell'impossibilità, in condizioni di sicurezza e di efficacia,
della cauta apertura verso il P.S.I. e della conseguente rinnovata esigenza di
attuare ancora la difesa democratica, nelle forme e con i fini che
caratterizzarono le passate esperienze centriste. I motivi critici e la ricerca
del nuovo non mancarono nemmeno, come ho avvertito prima, nella stessa D.C.,
anche se essi non ebbero efficacia decisiva fino a che non fu modificata nel
modo retto e definitivo che or ora ho chiarito la posizione degli altri partiti
e fino a che non apparve chiaro, pur tra debolezze ed incoerenze, che un
processo di autonomia socialista era iniziato, ma che esso, ben lontano dal
concludersi ed insidiato da mille difficoltà, aveva bisogno di una qualche
comprensione ed incoraggiamento da parte delle forze democratiche, senza di che
sarebbero stati probabilmente condotti ad inaridirsi i primi timidi fermenti
dell'autonomia socialista. Si profilava cioè anche per noi una politica di
movimento, d'iniziativa, di responsabilità, se volete anche di rischio, ma come
unico modo di controllare, guardando lontano, gli sviluppi della situazione
politica del Paese e scongiurando la drammatica prospettiva di una rinnovata
intesa tra comunisti e socialisti. Si comprende bene come la D.C. abbia più a
lungo e più tenacemente affermato la validità della formula tradizionale di
collaborazione democratica ed abbia proceduto con più prudenza nella
valutazione dei rischi ed insieme delle prospettive positive delle novità
prospettate e sia giunta sì a considerarla superata in una nuova situazione
storica, in considerazione anche della determinante volontà altrui, in vista di
una scelta migliore da fare o da tentare, ma non esclusa in linea di principio,
non incompatibile assolutamente con la natura della D.C., non eliminabile nella
ricerca del meglio o del meno peggio che possa offrire la situazione
parlamentare. La D.C. infatti è per suo compito istituzionale più prudente e
più attenta a necessità che possano verificarsi ed alle quali essa nella sua
responsabilità dovrebbe corrispondere. E ciò non per l'abusata critica circa il
carattere composito del Partito e del suo elettorato, perché l'uno e l'altro
sono largamente popolari, ma perché il suo compito di Governo, se non può
giustificare l'esercizio del potere a qualunque costo e con chiunque, pone
tuttavia doveri particolari ed impone la gradualità delle scelte e la loro
realizzazione in condizioni di sicurezza. Ciò spiega il peso che hanno nella
presente situazione le posizioni assunte dagli altri partiti e le valutazioni
prudenti, ma attente e serie, circa le prospettive di un reale processo di
autonomia del P.S.I., la opportunità d'incoraggiarlo e di sbarrare la via a
ritorni frontisti, la speranza che un più ampio e libero respiro della vita
democratica in Italia, aiutato e reso possibile oggi da una posizione più
aperta ed esposta della D.C., possa alla fine contribuire a dare più movimento
alla politica italiana, possibilità di articolazione nell'area democratica, più
propria collocazione ad ogni partito, più fiducia per la stabilità e l'avvenire
delle istituzioni democratiche.
Insomma
la D.C., nell'ambito delle insuperabili ed acquisite preclusioni a sinistra ed
a destra dello schieramento politico italiano, prende le sue decisioni avendo
presenti i dati reali della situazione politica ed ispirandosi al criterio di
dare, anche se con prudenza e gradualità, le soluzioni più consone alle
esigenze del Paese ed agli interessi, guardati in lontana prospettiva, della
democrazia italiana. In un mio intervento precongressuale io elencavo dati significativi
della realtà politica italiana. Uno di essi è, io dicevo, la decisione or ora
illustrata dei partiti socialdemocratico e repubblicano, la ormai riconosciuta
inammissibilità ed estrema pericolosità di un allineamento del nostro Partito
con le forze di destra totalitarie e paratotalitarie, una esperienza
amministrativa, di importanza eccezionale in un ordinamento tutto centrato
intorno alle autonomie locali, che rivela l'impossibilità in molte città, e di
grande rilievo, di adottare formule di Governo locale incentrate sulla
collaborazione con le forze tradizionalmente alleate della D.C. ed infine la
prospettiva di un accostamento del P.S.I. ai partiti democratici e di un suo
distacco dal Partito Comunista.
Il
governo di centro-sinistra
In
queste condizioni, che riguardano, come si vede, il presente e l'avvenire della
democrazia italiana, non si può dire che una larga scelta sia data a coloro che
hanno la responsabilità della vita politica italiana. Ed infatti anche coloro
che rifiutano più o meno drasticamente quella esperienza che noi pensiamo sia
da ritenere possibile e da tentare, non hanno poi molto di più che argomenti e
motivi di preoccupazione da proporre. Argomenti certo seri, motivi di
preoccupazione certo condivisi, ma non sino al punto di farne scaturire la
paralisi ed una sorta di rassegnazione ad un tempo cieca ed impotente. Ora
certo un partito che si trovasse privo di ogni possibilità di iniziativa,
condotto per forza di cose a tradire se stesso ed i suoi elettori, non ha altra
via che quella della testimonianza, che è la nobile e dolorosa espressione di
un declino inevitabile. Ma noi non siamo a questo punto e non siamo chiamati
alla rassegnazione, all'inazione, alla mera testimonianza. La D.C. ha ancora
delle possibilità, delle prospettive, delle iniziative, nelle quali è il
rischio che è in tutte le cose umane; ma è un rischio che può essere
affrontato, che può essere, comunque vadano le cose, superato da un Partito
unito, consapevole, coraggioso, che rifiuti anche solo di considerare l'ipotesi
della sua rinunzia e della sua sconfitta.
Com'è
noto, l'ipotesi prospettata come modo di soluzione della presente crisi
politica e cauta sperimentazione di nuove vie per la democrazia italiana è
quella di una coalizione tra la D.C. ed i partiti della sinistra democratica
alla quale dovrebbe accedere dall'esterno il P.S.I. dando un appoggio diretto o
indiretto. Non è in discussione in questo momento una alleanza politica, un
accordo organico, la vera partecipazione dei socialisti ad una maggioranza
parlamentare. Abbiamo avuto occasione di ripetere anche nel corso di questa
relazione i motivi di dissenso, le nostre riserve, le nostre preoccupazioni nei
confronti del P.S.I. Non solo sono diverse, ho osservato, le nostre ideologie,
ma in punti di notevole rilievo divergono le nostre linee politiche. Questo
dato di fatto fa registrare, da una parte e dall'altra, la impossibilità di un
collegamento organico tra i nostri due partiti ed invero anche con i partiti
della sinistra democratica i quali, pur ammonendo circa la opportunità di
utilizzare già quello che unisce al Partito Socialista, non hanno mai nascosto
né sottovalutato le cose che dividono e nelle quali si rileva la immaturità
democratica, nel senso che noi diamo alla espressione, del P.S.I. L'ipotesi che
viene oggi prospettata è diversa, invece, e minore. Si tratta cioè
dell'appoggio del P.S.I. ad un'azione politica e di Governo nella quale esso
riscontri l'esistenza di alcuni punti interessanti sul piano programmatico e
per i quali valga la pena di assumere un atteggiamento non negativo.
E'
possibile che, battendo la nostra strada, attuando il nostro programma,
aderendo alle nostre genuine ispirazioni, questi punti d'interesse emergano per
il P.S.I. e ne giustifichino l'adesione in una qualche forma al progettato
Governo di centro-sinistra. Tocca a noi, evidentemente, con profonda serietà,
con piena autonomia, con vera consapevolezza delle necessità urgenti del Paese,
di proporre senza semplicismi ed insieme senza cedimenti di sorta quegli indirizzi
programmatici, quelle prospettive di azione che possano mettere in crisi quella
pregiudiziale volontà di opposizione che qualche volta il P.S.I. ha mostrato.
Ed alla nostra assunzione di responsabilità spetta agli altri rispondere con
pari assunzione di responsabilità. Non è cosa facile per nessuno, lo sappiamo,
né per noi né per loro; ma passa per questa comune assunzione di responsabilità
la possibilità di superare il punto d'inerzia e di dare avvio a qualche cosa di
nuovo e di costruttivo che valga a porre su nuove e più sicure basi la
democrazia italiana. Come osservavo in un mio recente articolo,
l'interessamento socialista ad un tale assestamento politico avrebbe per sua
parte una giustificazione in vista delle esigenze del Paese ed allo scopo di
favorire una graduale evoluzione della situazione politica e lo stabilirsi di
nuovi, più solidi e costruttivi equilibri. Si tratterebbe dunque di un
intervento che non è gratuito ed immotivato, ma ha in sé e nel suo significato
politico la sua ragion d'essere ed il suo premio. E così per noi la nostra
iniziativa, della quale non si può disconoscere, nelle attuali condizioni
psicologiche e politiche, il coraggio, anche se non è esso un coraggio
spericolato, ha tra le sue giustificazioni che non è lecito trascurare la
prospettiva appunto di un auspicato sviluppo nella vita democratica, di un
nuovo e più stabile assetto dei rapporti sociali e politici nel nostro Paese.
Si parla di garanzia ed il discorso certo può e deve essere accettato nel senso
che non può essere prospettata una politica che metta comunque a rischio le
istituzioni democratiche, le alleanze internazionali ed in generale gli impegni
elettorali della D.C. Su questo punto non può esservi dubbio o discussione. Si
tratta invece di vedere se, ferma restando la fedeltà alle linee essenziali del
programma che è comune nei tratti fondamentali alla D.C. ed ai partiti
democratici, non essendo previste compiacenti attenuazioni in quel che emerge
come essenziale dalla tradizione e dalla posizione elettorale di questi
partiti, non essendo consegnata ai socialisti nessuna leva di potere che essi
del resto non domandano, riservandosi essi solo di dare un giudizio politico
sulla situazione, possa immaginarsi come necessaria, possibile una garanzia
dall'esterno e non invece essa sia da ricercare e da trovare nella coerenza
programmatica e nella inflessibile fedeltà dei partiti democratici ai loro
ideali. Sembra si dimentichi qualche volta che, a parte la pressione di una
situazione politica per tanti versi difficile e chiusa, a parte gli obiettivi
di garanzia e di sviluppo democratico che illuminano e giustificano questa
esperienza, si tratta in sostanza di provare a far combaciare per quel che è
possibile i programmi e le aspirazioni dei partiti democratici e del Partito
Socialista, in modo che ne possa derivare una qualche possibilità di azione
comune, un sostegno dato insieme, perché per questa grande impresa sono tutti
necessari, ad alcuni punti fondamentali inerenti alla difesa delle istituzioni
democratiche ed al processo sociale del Paese. Si tratta di un esperimento, di
una prova, che può riuscire o fallire, ma ha sempre un alto valore come
tentativo di sbloccare una situazione difficile per la democrazia italiana,
come principio di una chiarificazione circa le possibilità di convergenza in
termini nuovi, se essi esistono, delle forze politiche italiane. Ma questa
prova non presenta altri rischi se non quelli psicologici e politici generali
che sono in ogni momento politico di rilievo. In concreto, questa esperienza è
una occasione offerta all'emergere ed al continuo manifestarsi di una reale
posizione di autonomia socialista. Non è un'avventura, ma una tappa, un momento
del difficile cammino attraverso il quale si approfondisce, e consolida, o
nella solidarietà o almeno nella chiarezza, la democrazia italiana.
Il
ricorso all'elettorato
Contro
l'ipotesi che noi crediamo il Congresso debba ammettere ed offrire agli organi
esecutivi del Partito i quali ne saggino la concreta attuabilità, si oppone
come alternativa reale solo quella delle elezioni. Si vuole una elezione su di
una pregiudiziale, mentre noi ammettiamo, se mai, una elezione su di una
esperienza. A parte il fatto che le elezioni anticipate non dipendono da noi e
trovano del resto i noti ostacoli costituzionali per la loro immediata
effettuazione, io credo che elezioni anticipate sulla pregiudiziale della
totale impossibilità d'incontro tra P.S.I. e D.C. siano inopportune, perché una
parte notevole dell'elettorato, quello che in definitiva decide in queste
competizioni, non è e non sarà persuaso ad assumere un netto atteggiamento da
una pregiudiziale, ma semmai da una prova significativa. E non è neppure, noi
crediamo, giusto e conforme agli interessi della democrazia, chiedere un
giudizio elettorale su di una pregiudiziale, per quanto ragionevole ed
importante essa sia. Le strettezze della nostra vita politica, che solo un
incosciente potrebbe sottovalutare o trattare con semplicismo, sono tali,
l'avvenire della democrazia è così incerto che non si può trascurare di fare la
prova che ci è offerta, che ci è dichiarata possibile da parte socialista, una
prova d'incontro indiretto sulle cose, un tentativo di far combaciare
parzialmente e poi utilizzare i punti di contatto tra i due partiti. Al punto
in cui sono le cose non si può volere tutto o nulla. Bisogna provare; noi non
possiamo assumerci la responsabilità di non provare affatto. Ed è un'esperienza
da fare con gli occhi aperti, con estrema vigilanza, con pieno controllo di noi
stessi; ma è un'esperienza da fare con buona fede, seria volontà, fiducia e
speranza. Perché nessuno che abbia a cuore le sorti della democrazia italiana
può desiderare che questa prova non riesca e che siano saldati i vincoli tra
socialisti e comunisti.
La
missione storica della D.C.
Per
quanto importante sia la soluzione di una crisi politica e soprattutto se essa
avvenga nel segno della novità, di una diversa prospettiva che si apre o almeno
si tenta di aprire per rispondere alle esigenze a loro volta nuove della
situazione ed all'urgenza dei tempi, essa resta tuttavia subordinata per
importanza alla conferma dell'intatta forza di vitalità del Partito,
all'assicurazione che esso conservi integra la sua fisionomia, al mantenimento
di un solido rapporto di fiducia con il corpo elettorale. Per rilevanti che
siano le vicende politiche e parlamentari che un partito si trova a vivere, i
modi secondo i quali esso fronteggia, come può, mediante intese ed alleanze, la
concreta situazione politica, è però vero che è soprattutto il Partito che conta,
che esso vive in Governi e maggioranze parlamentari ma non si esaurisce in
essi, che è soprattutto il Partito, con la sua storia complessiva, con la sua
ideologia, con la sua unità, con la sua carica emotiva, con i valori spirituali
che coltiva, con le speranze che accende per il futuro, con il suo significato
proprio al di là dei compromessi e delle combinazioni pur necessari, è il
Partito come tale, nella sua autonomia e nella sua integrità, che parla
all'elettorato e si pone come punto reale e duraturo di riferimento nello
sviluppo di civiltà e nell'evoluzione storica del Paese. Ecco perché anche in
questo momento, ed anzi soprattutto in questo momento nel quale si prospettano
novità che destano e non possono non destare perplessità, e perplessità nutrite
certamente in tanti, se non in tutti, in buona fede, con un sincero desiderio
di coerenza e di verità, il discorso deve tornare al Partito, a quel che il
Partito rappresenta nelle mutevoli contingenze della storia. E' il Partito che
dà la garanzia ed è al Partito che veramente si concede la fiducia. Ed il
Partito siamo noi, tutti noi, maggioranza e minoranza, ciascuno con la propria
funzione ed il proprio significato, in una varietà che corrisponde alla varietà
di un corpo elettorale che è libero e non può essere perciò monolitico; in una
unità che corrisponde essa pure alla unità fondamentale del corpo elettorale
che, nelle sue particolari visioni e sensibilità, tuttavia si ritrova in una
linea comune, in una fondamentale interpretazione della realtà sociale nelle
sue esigenze e nel suo divenire, in una comune tensione, che è veramente
caratterizzante, verso una meta di giustizia vera in una libertà vera ed alla
luce degli ideali cristiani. Non parliamo, amici, di divergenze irrimediabili,
di profondi contrasti tra noi, di un rischio reale che sia deformata e tradita
nella sua essenza e nella tua verità la D.C. Soprattutto non contribuiamo a
creare con una polemica di toni così accesi e così profondamente ingiusta il
disorientamento e lo sconforto nel corpo elettorale. Il tener ferme le nostre
posizioni, il confermare la fiducia nel Partito, anche se esso si accinge,
restando se stesso, a difficili prove, a fronteggiare con senso di
responsabilità la realtà quale è, questo dipende largamente da noi, direi
esclusivamente da noi. Ricordiamo noi e facciamo capire agli altri che siamo
uniti e fermi nelle cose essenziali, quelle che caratterizzano la D.C. e che
queste cose essenziali non saranno in nessun caso messe in discussione.
Pur
tra tante polemiche, pur tra tante astiose interpretazioni delle nostre azioni
e delle nostre intenzioni, è pur vero che non si cessa di guardare alla D.C.,
che non si può non fare riferimento ad essa che resta il dato fondamentale ed
il centro dello realtà politica italiana. Chi vuole cambiare radicalmente le
cose, chi vuole instaurare il regime, chi riserva, sotto qualsiasi forma e per
qualsiasi finalità, nuovi asservimenti e nuovi sacrifici agli uomini, sa che
deve sbarazzarsi dalla D.C. e lo dice. Certe convergenti critiche di parte
fascista stanno a dimostrarlo. La D.C. è il nemico e, finché c'è la D.C.,
integra e forte, né il comunismo né il fascismo possono passare. Chi almeno
nello grandi linee concorda con noi, pur nella varietà delle particolari
visioni politiche, chi crede nella libertà, chi immagina nel nostro Paese una
garantita pacifica evoluzione nella quale le idee sociali più persuasive si
possano affermare nel rispetto della libertà, chi vuole comunque il rispetto
dell'uomo e che esso non serva ad altri, ma abbia libero il suo rapporto con se
stesso, con gli altri e con Dio, non può non riconoscere che la D.C. è il punto
di forza indispensabile perché questa visione del mondo prevalga e si attui.
Non si può volere in concreto la libertà nel nostro Paese e al tempo stesso
sbarazzarsi della D.C. o lavorare per mortificarla.
Ecco,
veramente noi siano indispensabili, siamo ancora indispensabili al nostro
Paese, se questo deve essere un Paese libero ed umano. Lo sentiamo più
vivamente quando vediamo, come nei giorni scorsi, scatenarsi su di noi la furia
distruggitrice del comunismo, la sua fredda volontà di travolgere, senza
rispetto della verità né rispetto dell'uomo, tutta la D.C., la sua tradizione,
la sua storia, il suo servizio fedele alla democrazia italiana, l'ordine che
essa ha dato alla nostra società e che è aperto ad ogni miglioramento e
progresso. E nessuno s'illuda che con la D.C. non siano per essere travolti, se
l'attacco totalitario dovesse riuscire, tutti coloro che credono nella libertà
e la vogliono garantita. Perciò abbiamo reagito nel modo più drastico e
significativo all'attacco comunista, per sottolineare in genere, e soprattutto
in quella particolare situazione, che quella critica significa non correzione
ma distruzione, non collaborazione sia pure polemica e negativa ma cambiamento
di regime. Quest'è infatti la posta in gioco. Di fronte alla pesantezza
dell'attacco totalitario, di fronte alla complessità e gravità dei problemi di
Governo, il fronte ad esigenze nuove e nuove attese che nella incessante
evoluzione della vita sociale emergono dal Paese ed attendono di essere
inalveate e composte sì da evitare scosse ed anzi consolidare le strutture
democratiche, la D.C. è ferma e pronta a tenere il suo posto, assolvere il suo
compito, continuare la sua opera determinante ed insostituibile per
salvaguardare, arricchire e consolidare il regime democratico in Italia. La
critica acre e demolitrice, ch'è segno essa stessa della incompatibilità che
c'è tra noi ed i totalitari, non oscura né in noi né nel popolo italiano che in
tante circostanze ci ha riconfermato la sua fiducia, la consapevolezza del
valore costruttivo della nostra azione, del peso delle nostre esperienze e
tradizioni, del servizio che i nostri uomini ed il nostro Partito rendono nel
Governo, nel Parlamento e nel Paese alla democrazia italiana, di quel che
significano per il popolo italiano gli ideali religiosi umani e sociali ai
quali ispiriamo la nostra opera, la intatta riserva di energie, di idee, di
tecniche, di esperienze, di forza morale e politica con le quali guardiamo al
domani e ci prepariamo a costruire ancora una volta, secondo una funzione non
esaurita e non diminuita nel corso di vicende pur complesse e difficili,
l'avvenire di libertà e di giustizia del popolo italiano. Per questo io mi
preoccupo, devo preoccuparmi soprattutto che la D.C. viva e sia consapevole,
fiduciosa e forte quanto basta per continuare la sua opera al servizio della
Patria italiana; per questo mi importano certo molto i problemi di Governo, le
prospettive delle alleanze e delle collaborazioni, il complesso gioco
parlamentare; e perché queste scelte siano conformi agli interessi anche
lontani della democrazia e del Paese chiediamo alla D.C. dirittura, chiarezza,
coraggio, chiediamo ad essa che sia disposta anche a pagare il prezzo che una
scelta difficile e che apre prospettive lontane forse richiede. Ma più mi
preoccupo della D.C., più mi preoccupo dell'unità e della forza della D.C., che
sia pronta in ogni momento a presentarsi al Paese, a persuaderlo ed a tranquillizzarlo
con la sua intatta forza ideale, a richiamarlo, con un prestigio ed una energia
che ottengano risposta positiva, per guidarlo ancora sulla via del progresso
nella libertà.
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